venerdì 17 ottobre 2025
Da circa una ventina d’anni anche gli italiani avvertono come stia diventando sempre più difficile comprendere le ragioni del proprio prossimo. Una sorta di giustizialismo, su basi scientifico giurisprudenziali, impone si debba calpestare chi più debole economicamente a cospetto di spese condominiali, obblighi fiscali, depositi bancari, tempestività nel pagamento di cartelle esattoriali, bollette, multe e qualsivoglia vessazione di sistema. I poveri aumentano, ma le loro ragioni nessuno è tenuto per legge a comprenderle. I recenti casi del pensionato settantenne che s’è suicidato per timore dello sfratto, come dei tre fratelli che si sono opposti all’esproprio con l’esplosione, o dei tanti che minacciano quotidianamente i funzionari dell’Agenzia delle Entrate Riscossione, fanno riflettere sul punto di disperazione raggiunto dalla società contemporanea italiana. Confrontandomi con sociologi, psicologi e vari religiosi è emersa l’attuale umana difficoltà ad accettare un doveroso decadere in stato di povertà.
In molti mi hanno fatto notare che più d’un secolo fa nessuno si suicidava per povertà, casomai cercava lavori molto umili, o sopravviveva d’espedienti, tentate vendite, forse piccoli furti nelle campagne. La società è cambiata, con essa il comune senso di percepire azioni, opinioni, tragedie. Ha contribuito non poco al fenomeno la tecnologia, la continua connessione informatica ad un mondo globale: notizie, foto, filmati che tempestano di continuo l’uomo, creando una sorta d’anestesia generalizzata delle coscienze. Così un suicidio diventa risibile per quella vasta comunità collegata in rete che immediatamente fa paragoni con stragi, guerre, omicidi. Stesso discorso per l’esplosione di bombole e altro ancora.
Ricordo che da ragazzo negli anni ’70 guardavo in televisione con grande curiosità le commedie in bianco e nero proposte dalla Rai: ho un lontano ricordo d’una intervista ad Eduardo De Filippo che, con un occhio socchiuso e avanbraccio poggiato sulla fronte, spiegava in napoletano che: “I fantasmi sono i morti che cercano i vivi”… “la coscienza” aggiungeva con risatina amaramente ironica il drammaturgo. A distanza di oltre cinquant’anni forse De Filippo avrebbe notato come un computer e un algoritmo, deputati a notifiche e ottemperanze varie per gli uomini, non abbiano alcuna coscienza o capacità di dialogo con milioni di vessati, di uomini incapaci d’accettare di dover rinunciare a tutto, di dover necessariamente cadere in una forma irreversibile di povertà. E la povertà è oggi più di ieri accompagnata da esclusione sociale e perdita di ogni diritto: chi aprirebbe mai un conto bancario ad un povero? Chi gli farebbe credito o gli rateizzerebbe una sanzione? Chi non può dimostrare credito, beni importanti o un contratto di lavoro non ha nemmeno diritto ad un rateizzo, il sistema impone che il pagamento avvenga in unica soluzione ed attraverso sistemi informatici bancari; così il tipo se ne frega, non paga, e scivola sempre più in quella palude sociale e buia in cui gli uomini hanno tutti lo stesso volto, voce o mugugno.
Il problema della coscienza anima il dibattito filosofico da svariati secoli, anzi da sempre. Negli ultimi anni anche il filosofo della scienza Dan Dennett s’è posto il problema se la coscienza possa mai riguardare la sfera dei misteri scientifici o di quelli meramente filosofici influenzati (o influenzabili) dalle singole convinzioni spirituali.
Ecco che chi cade in difficoltà, a seconda del proprio credo religioso o ideologico, tende a chiedersi se il potere abbia una coscienza: quest’ultima è per i maestri di morale ed etica un mero concetto di consapevolezza di sé, del mondo esterno, dell’uomo e della vita, e su ogni aspetto include l’imprescindibile capacità di ogniuno di noi d’emettere quel giudizio morale che genera in noi una scintilla, lo stimolo allo scatto di coscienza. Ma quanti sono in grado di elaborare questo stimolo morale tra quelli posti dal potere a guardia di banche, fisco, giustizia e altro ancora?
Cartesio aveva tentato di mettere contorni alla coscienza, definendola una sorta di flusso introspettivo irriducibile, una sorta di capacità innata di intuire l’esistenza, forse la vita; insomma, il processo più ampio dell’animo umano, che include soprattutto dimensioni psicologiche e morali. John Locke e George Berkeley aggiungevano che è influenzata dalla percezione delle idee che provengono da tutte le esperienze del mondo esterno. A conti fatti la coscienza è la capacità che ognuno di noi ha di distinguere tra bene e male: quindi il provare sentimenti come il senso di colpa, di distinguere lucidamente tra bene e male.
Ecco che la coscienza è il regolatore, la funzione generale della mente: senza di lei la capacità di elaborare stimoli è falsata, il funzionamento del cervello viene meno e quindi l’individuo non si autoregola: ergo è insensibile all’altrui sofferenza, ai problemi della società. Più volte da queste pagine ho sottolineato come la società digitale presenti aspetti a-filosofici (intendendo l’alfa volutamente come privativa), perché la filosofia ha il ruolo d’indagare il rapporto tra il mondo come ci appare e la sua realtà oggettiva. E l’attività filosofica (forse è limite di chi vi scrive) è solo dell’uomo. Anche se qualcuno ci vuole convincere del fatto che la virtualità e la digitalizzazione facciano comunque parte del mondo costruito dal cervello umano, rimane innegabile che l’uomo di potere stia delegando troppo alla tecnologia perdendo il contatto (ed il dialogo) con la gente, col popolo.
Questo aspetto è emerso prepotentemente in Italia durante il governo di Mario Monti, all’epoca chi vi scrive era sceso nelle piazze e davanti alle sedi Equitalia a fianco del “Movimento 9 dicembre” (che erano ben altra cosa dai Forconi). C’è in me il ricordo di alcune risposte dei delegati dal potere. Ovvero, alle domande sulle varie multe spropositate agli agricoltori ci veniva risposto che “le ha calcolate il sistema informatico di Bruxelles… che una volta contabilizzate dall’Unione Europea non si può fare nulla”. Così gli agricoltori si lagnavano di multe fatte da ispettorati e consorzi di bonifica, mentre gli allevatori di bovini delle sanzioni relative alle quote latte, quelli di ovini dei vari limiti di legge… e la lista è lunga.
Nessuno di loro si dava pace, alla loro protesta si accodavano camionisti, officine meccaniche, falegnamerie, piccoli imprenditori del tessile, commercianti, ambulanti. Tutta questa gente in quindici anni non ha ricevuto alcuna risposta dalla politica: nemmeno la Lega, che aveva promesso di bruciare quelle sanzioni in piazza, ha mosso un dito concreto. Dalla borghesia impiegatizia passando per la classe dirigente tutti stanno lì a guardare, manco fosse uno spettacolo al cinema, la fine del tessuto lavorativo italiano dalle campagne ai laboratori. Una morte che diventa spettacolo per chi percepisce elettronicamente un reddito senza nemmeno porsi il problema di cosa concorra a generarlo. E la politica, pavida, reprime ogni stimolo coscienziale, fingendo di guardare anche lei indifferente la fine dell’Italia.
Eppure, tutti sanno che ormai è una bomba ogni bottega artigiana o casolare di campagna, perché l’algoritmo delle inadempienze sta inseguendo tutti i cittadini. Banche, Agenzia delle Entrate, assicurazioni, colossi immobiliari, amministrazioni condominiali, comuni, enti vari, tutti contro un cittadino che non riesce più redditualmente a coprire gli obblighi di sistema.
Lo spettro d’una povertà irreversibile fa visita ogni notte a milioni d’italiani, ma nessun fantasma tira i piedi al cervellone bancario e fiscale, così il potere dorme sonni tranquilli.
di Ruggiero Capone