venerdì 26 settembre 2025
La decadenza dell’Europa, delle sue nazioni e dei tessuti sociali che la costituiscono vive nella rimozione e nell’impossibilità di dar corso al fenomeno costitutivo della sua civiltà, la cura dell’anima. Questa esperienza è negata, e nella sua negazione porta al disfacimento dello spazio spirituale europeo, perché il suo centro vivificante, l’anima, la coscienza, semplicemente è stato rimosso, sostituito da altre forme di soggettività che hanno perso la loro grazia ontologica per diventare meri aggregati di soggettività formale che solidificano l’esperienza umana attorno a un centro d’azione sganciato dal senso e da ogni metafisica della trasformazione. Il lungo percorso che ha mosso il cammino della civiltà europea dalla Grecia della cura dell’anima, passando per il medioevo della sua salvezza e per la modernità in cui l’anima si apre allo schema della vastità del creato per meglio controllarlo e comprenderlo, dunque come un’anima centro propulsore dell’attività osservativa, scientifica e sistematica – secondo lo schema formale dell’Io penso kantiano – si è interrotto. Questo cammino si è smarrito perché la ricerca del bene, della vita buona non è più centrale nel nostro tempo e l’anima nel suo perenne sentire, avvertire ciò che è aderente a un senso di giustizia non può più misurarsi con il destino della sua ragione ontologica. Viviamo in un tempo materiale, dove ciò che è vero è ciò che si esperisce, si vede, si misura; il valore si coglie in relazione a ciò che esiste concretamente o al massimo può essere costruito, fabbricato, creato. L’anima ha bisogno di un linguaggio ispirato, di segni e di simboli, di dei e creature dei boschi, della fede, l’anima vuole essere vivificata dal mondo immateriale delle idee e degli ideali. L’anima è ciò che è stato in contatto e lo è ancora con il significato e il senso della vita, perché si muove nella dimensione della ricerca della verità e di ciò che connette l’esperienza umana alla logica di una vita giusta e secondo misura, con gli ideali che trascendono la datità e si aprono alla possibilità della trasformazione. Si può dire che l’Europa non sia più la stessa: perché l’uomo europeo ha smarrito il suo rapporto costitutivo con l’essenza dell’anima, e dunque ha perduto il suo spirito vivificante e rivolto al cambiamento verso uno stato più evoluto dell’essere. Il problema di questo tempo è che l’anima è stata smarrita, ma la perdita spirituale ha contagiato il piano materiale, rendendo l’esistenza ripiegata su sé stessa, nell’immediatezza del suo agire pratico, con una minore capacità di permanere nelle regioni della riflessione e della capacità di accedere a uno stato di più compiuta felicità. L’anima dell’uomo europeo è stata barrata e sostituita da una soggettività che apparentemente non ha padroni, che è solo al servizio di sé stessa, che può muoversi secondo l’ordine dei suoi fini pratici, che si dispongono secondo l’apparente e momentanea realizzazione e affermazione di sé.
La soggettività europea è la soggettività della progettualità economica che vive nel dominio della produzione e dell’attività pratica, per questo l’uomo che rimane oggi, dell’assenza di anima e della rimozione della coscienza, è l’essere della performazione, dell’abilità e della scommessa sulle sue capacità tecniche; vive nel calcolo, nel rilancio, nella forza inesausta prometeica che lo porta a mostrarsi come artefice costante del suo destino, nell’unica dimensione che il discorso del capitalista gli consente, quella del fare e del costruire merci e servizi di cui è inesausto artefice e produttore. Quella che rimane, nella dimensione della produzione, è una coscienza immanente, che vive nelle cose risucchiata alla spirale della materia per darle un moto e una forma senza trovare mai una soddisfazione, come se fosse quella di un falso Demiurgo, incapace di accedere alla libera assemblea dei suoi simili, perché quella che rimane è una soggettività che ha dimenticato l’importanza del dialogo, dell’incontro con l’altro, del condividere idee e pensare a migliori mondi possibili grazie alla forza dialogica del confronto. La soggettività che rimane nell’esilio dell’anima e nella rimozione della coscienza e del suo spirito negativo che anela al sapere e che dunque goethianamente (e mefistofelicamente) “in eterno desidera il male ma che eternamente afferma il bene”, coscienza che tanto superamento e sollievo dialettico procura all’essere soggettivo proiettato verso lo scoglio della cosa, (la soggettività che rimane) vive nel mondo della materia, della progettualità inesausta e senza senso, nella fine della coscienza e della ricerca del sapere ulteriore. Quella che resta sul campo è una soggettività del fare, del costruire in serie, ma cucita nei resti di quello che è stato il senso e l’ardore dell’anima europea, nella morte dello slancio creativo, nell’illusione della vita affermata con l’unico destino di essere nel dominio della mercificazione, l’importante è andare avanti in questa linea retta del fare lontano da ogni principio speranza e ogni logica di trasformazione.
La soggettività produttiva dell’uomo europeo che rimane in gioco è una soggettività incapace di provare sentimenti, di avvertire gli affetti, di aprirsi alla coscienza del sentire e del comprendere lo stato che va attraversando; la soggettività che è chiamata in causa in questo mondo omologante e senza ispirazione è diventata l’unico tipo di coscienza che rimane sul campo, la coscienza dell’obiettivo raggiunto o, pazientemente – se non eternamente – da raggiungere, del successo forzato, anche a costo di voltare le spalle al richiamo del sentire dell’anima che ormai è silente in un mondo iper reale dove ciò che conta è solo quello che si vede, si misura e si compra; per questo la soggettività che rimane è quella dello sforzo al di là di ogni ragione e riferimento alla stato della persona, anche di salute psichica, l’importante è produrre e vivere nella dimensione ipercapitalista e senza vie di fuga della progettualità perenne. Il sostegno alla vita non riposa più in una chiarificazione dell’essere, nel cogliere un disegno che colora e misura i nostri giorni, nel sentimento dei momenti e degli attimi che danno entusiasmo al nostro tempo, per tirare fuori l’anima dalla sofferenza e dallo sguardo inquieto del male che crocifigge, il sostegno alla vita si riduce solo alla logica del guadagno, del denaro che si incamera e si tesaurizza fino ad assorbirne il più possibile, fino a scoppiarne; tanto più è alto il guadagno, tanto più la soggettività che rimane acquista un senso, quasi una sicurezza ontologica, come se che la vita fosse cucita attorno all’unico abito del commerciante perenne di sé stesso. La soggettività che rimane è garantita e legata all’essere per mezzo della sostanza materiale del denaro, unico punto di volta in una vita senza più valori ne messaggi ispirati, ne forme di racconto sullo stato di sé e dell’incontro perenne con la realtà. Si tratta di un mero paradosso perché, in un mondo senza assoluti, senza più la presenza del mistero né dell’ulteriorità del senso con cui l’anima custodiva un rapporto, la coscienza del produrre è persa nel suo cammino e non riesce più a trovare punti di appoggio, sostegni ideali, è incapace di mettersi in contatto con l’altro perché è avvinta dalla dimensione oggettuale e dal minimo comune denominatore del denaro che tutto avvince, del guadagno che la risucchia e la rende incapace di affermare l’antico suo percorso di ricerca della verità.
La soggettività del produrre non si purifica, non si innalza, non viene salvata e nemmeno si salva da sé, semplicemente perché nega ogni ulteriore discorso che vada oltre la sostanza economica. Non le interessa più, è il sistema sociale la scoraggia a farlo, di comprendere cosa esiste al di là del suo processo produttivo. Come si può salvare l’anima o la coscienza se rimuove la profondità del suo occhio scrutatore e ricercatore del senso? La soggettività del produrre ha perso il valore del dialogo, si nutre dell’illusione che il successo economico le porti felicità, ma dimentica che l’anima, la coscienza ha bisogno di una dimensione politica, aperta alla possibilità della trasformazione, altrimenti si vive solo in un percorso di aridità autoreferenziale nella dimensione dell’iper controllo di sé, perché senza azione politica la soggettività del produrre non può fare altro che accettare la datità, la logica del guadagno e del fare, e quindi diventa inflessibile, rigida, il peggior aguzzino di sé stessa perché, in fondo, nell’accettazione del reale realizza l’unico scopo di dar corso al disegno economico, alla sete di guadagno per sé e per chi si trova più in alto nella rete sociale, senza fare alcun passo verso soli dell’avvenire, mete ideali o verso l’avvento di una nuova e felice epoca di libertà.
di Mario Sammarone