mercoledì 27 agosto 2025
Di solito nel periodo estivo, nella pausa agostana, quando c’è un momento di relax dal mondo del lavoro, ci si può permettere alcune riflessioni su argomenti specifici e profondi come quello della giustizia. Non mi voglio addentrare nella giustizia ordinaria, sulla quale si sono confrontati grandi personaggi, ma su quella minore, ma non per questo meno importante, che è la giustizia tributaria. Sebbene sia una persona umile, in questo caso, mi permetto di conoscere tale mondo, essendo stato per oltre 30 anni giudice tributario, attualmente vicepresidente alle Corti di giustizia di Roma e Latina, oltre ad aver svolto le funzioni di giudice onorario di tribunale presso il Tribunale di Latina e di funzionario del tribunale e del Ministero dell’Economia e della Finanza. Di solito la giustizia tributaria, di fronte a quella ordinaria (civile, penale) è stata presa come esempio per velocità di tempi (una sentenza nel giro di qualche mese è depositata dopo l’udienza) rispetto a quelle di altre giurisdizioni. Ma da un po’ di tempo anche nelle corti di giustizia tributaria, si assiste ad un certo rallentamento che è dovuto a svariate cause, tra cui, a mio modesto parere, l’aumento dei giudici togati.
E non perché siano meno competenti rispetto ai laici, bensì perché si tratta di giudici che ricoprono contemporaneamente diverse mansioni negli organi di giustizia di provenienza, i cui impegni si accavallano con quelli, gravosi, che caratterizzano la giustizia tributaria. Ebbene, prima dei concorsi a giudice tributario – il primo concorso è ancora in via di espletamento – le commissioni tributarie (ora corti di giustizia tributaria) erano per la maggior parte formate da laici, e poi man mano c’è stata una massiccia entrata di magistrati togati rispetto ai laici. Ai quali era concesso un bonus di entrata di 20 punti rispetto a tutti gli altri candidati, e quindi era evidente una cospicua presenza dei togati a discapito dei laici (avvocati, commercialisti, funzionari dello Stato). A parte il fatto che appare allo scrivente non solo una discrasia ma qualcosa di più serio che un magistrato che abbia esercitato sempre le funzioni di pubblico ministero, diventi improvvisamente un giudicante nelle corti di giustizia tributaria.
Ho cercato, sempre nel rispetto dei ruoli, di invitare i relatori del mio collegio, a rinunciare a quella forma mentis dell’accusa, in quanto il cittadino che ricorre contro un atto illegittimo dell’Agenzia delle entrate non è un imputato, ma un semplice ricorrente. La sola appartenenza dei togati a qualsiasi corte di giustizia, permette a costoro una possibilità di carriera all’interno della magistratura, rispetto ai loro colleghi. Però si è assistito ad un reale svantaggio per le commissioni e per i cittadini, in quanto se prima dell’entrata massiccia dei togati nelle corti di giustizia, il tempo di deposito delle sentenze si aggirava sui due mesi, ora con i relatori togati – e la cosa mi consta personalmente direttamente – per precedenti e impellenti impegni nella Cassazione, nel Consiglio di Stato, nei Tribunali amministrativi regionali e via dicendo, dopo addirittura due anni ancora non depositano le sentenze delle quali sono stati relatori nella commissione tributaria. Non dico che sia sempre così, ma ci sono diversi casi del genere – in verità anche da parte di laici – e non è accettabile.
È vero che le norme richiedono ai relatori il deposito entro 30 giorni dall’udienza, ma è chiaro che l’imperfezione, chiamiamola così, della norma, è quella di non aver previsto una severa sanzione per tali ritardi. Sarebbe giusto e opportuno un intervento a riguardo, in primis del presidente del Consiglio, del ministro del Tesoro e del presidente del Consiglio della giustizia tributaria, nel senso di obbligare il deposito delle sentenze tributarie nel massimo di 3 mesi, prevedendo in caso di omissione e ritardi non solo una sanzione pecuniaria ma addirittura la revoca dall’incarico di giudice tributario. Come si dovrebbe anche intervenire sugli interpelli. Questi non possono durare un anno, bensì due o tre anni, perché la lungaggine ai tempi delle procedure al concorso non risolverebbe il problema delle assenze, delle vacanze e dei posti da mettere continuamente a concorso.
In ultimo, ci sarebbe da abolire un vecchio retaggio del passato che grava sullo Stato, e quindi sui cittadini. Mi riferisco al fatto che ogni volta che l’Agenzia delle entrate procede a un accertamento dell’importo dichiarato dal contribuente, su tale accertato viene accantonata una percentuale, destinata a un fondo che a fine anno viene distribuito tra i funzionari dell’Agenzia. E poco importa se, successivamente quell’accertamento di svariati milioni, in seguito al ricorso del contribuente, venga annullato dalla corte di giustizia tributaria, perché l’importo a suo tempo calcolato sull’accertato viene accantonato nel fondo predetto. Insomma, più aumenta il valore accertato più aumenta il fondo annuale da distribuire agli addetti ai lavori. Come diceva Antonio Lubrano nella sua famosa trasmissione televisiva di anni fa: “Cui prodest?” Il governo dovrebbe intervenire, abolendo l’esistenza di tale fondo, che a modesto parere di chi scrive, è una cosa vergognosa, immorale e penalmente rilevante in riferimento all’articolo 324 del codice penale (interesse privato in atti d’ufficio).
(*) Vicepresidente della Corte di giustizia tributaria di Roma e Latina, già giudice onorario di tribunale presso il Tribunale di Latina
di Costantino Ferrara (*)