venerdì 18 luglio 2025
Andiamo a smontare punto per punto il documento pieno di incongruenze emesso dalla Banca d’Italia sul nucleare. Iniziamo dalla introduzione in cui si afferma: “Questo, a sua volta, ha comportato un aumento dei costi e dei tempi di costruzione e progettazione dei nuovi impianti”. Ovviamente c’è stata la necessità di adeguare i progetti dopo un evento estremo come quello di Fukushima, dove ricordiamo i morti per nucleare sono stati zero a fronte di 18mila vittime correlate al terremoto. Dopo le riprogettazioni delle componenti critiche, ovviamente, i tempi di costruzione sono tornati nella norma (vedi qui), e questo lascia trasparire, sin dall’introduzione, la ricerca spasmodica della negazione dell’utilità del nucleare.
A proposito del cambiamento prospettico di posizione verso l’energia nucleare, gli ultimi sondaggi sono estremamente favorevoli, soprattutto tra la popolazione giovane. A tal proposito, il sondaggio Bimedia del 16 giugno scorso diffuso da AnalisiPolitica.it, mostra un forte incremento del consenso verso i reattori nucleari. Si afferma poi nell’introduzione: “La libertà del mercato elettrico in Europa ha comportato un frazionamento dei monopolisti pubblici verticalmente integrati in una pluralità di operatori privati. Questo ha portato a un modello di mercato che ha aumentato l’efficienza e la resilienza del sistema”. La risposta a questo paragrafo la lascio alla Cisl che, in un comunicato recente, ha fatto notare come la mancanza di un soggetto nazionale stia causando grandi danni, per non parlare dei fenomeni di difficile bilanciamento della rete, come evidenziato in Spagna, a fronte di un grosso uso di rinnovabili.
Venendo al caso spagnolo, l’uso degli accumuli remoti, unitamente alla produzione da rinnovabile, crea grossissimi problemi. Infatti, la regolazione che normalmente viene fatta, si trova una rete carica per il trasporto dell’energia nelle stazioni di pompaggio e di accumulo, soggetta a fluttuazioni imprevedibili. Nel caso italiano, le dorsali Nord-Sud sarebbero interessate da carichi intensi senza possibilità di intervento, motivo in più per dire che gli accumuli debbono essere situati in prossimità delle stazioni di generazione, onde ridurre i rischi di fluttuazioni. Questo schema (vedi qui), tratto dalle nostre lezioni agli studenti delle superiori, a cura di Ripensiamo Roma, illustra bene cosa è accaduto in Spagna. Nel momento del blackout (dai dati di Red Elettrica) c’era un alto carico di pompaggio per cui una “P” molto alta. In quelle condizioni di equilibro c’è stata una variazione di produzione (presumibile) che ha innescato una deriva in frequenza.
L’instabilità di qualche gruppo di generazione remoto ha causato una variazione di frequenza localizzata che, essendo molto locale, non è stata visibile immediatamente dai generatori, questo ha, probabilmente, causato l’innesco dell’oscillazione. Ciò ha innescato i distacchi degli impianti visto che i turbogas in funzione erano pochi e che gli inverter non sono tarati per opporsi alle variazioni ma solo per seguirle all’interno di un range. I distacchi, presumibilmente, hanno fatto il resto e portato a spegnere la rete. Quindi è evidente che non si possa affermare che il modello distribuito aumenti la resilienza della rete: solo nel caso di accumuli locali ai grandi impianti si ha una forma di resilienza!
Vengono tralasciate le ricostruzioni storiche e del Pniec perché non di interesse, va però notato che bisogna ben evidenziare chi sta installando e costruendo nuove centrali nucleari. Una parola a parte per la Cina che, oggi ha solo 1,8 per cento di produzione da nucleare, e che ha 143 impianti proposti, 39 pianificati e 20 in costruzione, sintomo di come l’energia nucleare abbia un grandissimo futuro nel paese del Sol Levante e negli Stati Uniti, che hanno valori similari. E questo dovrebbe farci comprendere come la riduzione dei gas serra passi sicuramente per l’atomo, tecnologia da cui non si può prescindere e che nel mondo che conta l’aumento del consumo di energia è una certezza. Ma veniamo al cuore del paper.
A partire da pagina 18, ci si scaglia contro il Governo, partendo dal documento del 2012 di Faiella-Lavecchi. Innanzitutto, lo scenario mondiale, nel 2012, era ben diverso da quello del 2025: l’aggressione nei confronti dell’Ucraina e la situazione mediorientale erano molto diverse e i costi del gas con cui confrontarsi e la penetrazione massima delle rinnovabili erano differenti. Va detto che, laddove gli impianti nucleari fossero stati iniziati nel 2012, oggi avremmo sofferto di una crisi rispetto al “caro-gas” molto inferiore, ed è facile prevedere crisi energetiche nel futuro visto che esse si susseguono con continuità più o meno ventennale dal 1970 ad oggi. Prova ne sono i risultati di paesi come la Francia. Per dimostrarlo, prendiamo come riferimento i dati delle borse elettriche europee (vedi qui).
Comparando i costi annuali di Spagna e Italia dal 2010, il rapporto nei costi del Megawattora tra i due Paesi è passato da 1.73 nel 2010 a 1,72 nel 2024, sostanzialmente stabile. Invece, con la Francia, tale rapporto è passato da 1.34 a 1.87, con un netto vantaggio economico per il nucleare ed il mix francese! L’unica nazione che si è comportata peggio dell’Italia (ma ancora vive di rendita e va a carbone in larga parte) è la Germania, il cui rapporto è passato da 1.44 a 1.38, sintomo che l’abbandono del nucleare è stata una scelta completamente sbagliata. Si noti il caso dell’area scandinava, in cui la Svezia, con il suo 40 per cento idroelettrico, 29 per cento nucleare, rappresenta la maggiore riduzione dei costi energetici a livello europeo: l’area del nord è passata da un rapporto 1.21 a 3.01.
Sempre sul confronto dell’energia prodotta si comparano direttamente i costi del nucleare con quelli delle energie rinnovabili. Tale costo non è confrontabile direttamente, perché 1 chilowattora di rinnovabile è diverso da 1 chilowattora da nucleare a livello di programmazione. 1 chilowattora nucleare è programmabile, il rinnovabile no, quindi il confronto serio vi sarebbe accoppiando sia la produzione che l’accumulo da rinnovabile, evidenziando anche che l’accumulo inserisce nella rete un’instabilità intrinseca, come detto in precedenza, aggiungendo quindi i costi di rete per la sicurezza della fornitura. Le fonti rinnovabili hanno dei costi fissi relativi a storage e sicurezza di rete enormemente maggiori rispetto a quelli stimati. Realizzato l’impianto, inoltre, i costi di esercizio del nucleare sono stabili e gli impianti molto più produttivi per un tempo maggiore.
Il fatto che gli impianti nucleari siano capital intensive, con un basso costo di denaro, spinge sempre di più verso la realizzazione degli stessi. In altri termini, se il tasso di interesse è basso come quello attuale e non ci si aspettano rivalutazioni (l’euro è fortissimo sui mercati), oggi è il momento giusto per investire. L’esempio da seguire, per quanto ci concerne, è quello svedese. Se questo è vero per gli impianti tradizionali, lo è ancora di più per quanto concerne gli impianti innovativi, dove bisogna inserire i ritorni di investimento in regime di bassa concorrenza, dove la produzione non è ancora collocata in Cina. Paragonare il Levelized cost of energy (LCOE) di tecnologie nuove con quello di tecnologie stabili, i cui impianti sono già esistenti, è semplicemente fuorviante (vedi qui). Utilizzare per confronto uno storage di sole 8 ore è ridicolo, visto che l’instabilità di produzione può essere espressa in settimane visto il capacity factor delle fonti e il rapido decadere della capacità produttiva del solare nel tempo (-1 per cento, -2 per cento annuo).
IL COSTO MARGINALE
Nel paper è presente questo grafico (vedi qui). Iniziamo con il dire che gli impianti a carbone sono in dismissione proprio per via delle politiche europee e vanno sostituiti, pertanto questo grafico non è attuale e applicabile al futuro, inoltre la rendita marginale degli impianti rinnovabili è erroneamente descritta. Infatti, non inserendo il prezzo di mercato delle fonti completo dei costi di storage, il costo marginale risulta pesantemente alterato proprio a livello di offerta.
Detto ciò, nonostante le considerazioni fatte, il nucleare resta una fonte in grado di diventare marginale, e comunque capace di ridurre il peso del gas sulla produzione italiana. È chiaro che la regolazione e il calcolo del prezzo siano pesantemente errati, dal momento che il capacity factor non è inserito nel calcolo delle offerte di prezzo (ed è il principale problema). La soluzione di disaccoppiare il mercato rinnovabile da quello del gas naturale è poco credibile, in quanto è facile prevedere che domanda e offerta di energia si disporranno in modo tale da pareggiare i prezzi nel lungo termine, spostando le quote verso l’energia disponibile e quindi alzando la domanda di rinnovabile a scapito di quella del gas. L’accusa, poi, di essere l’onere di sistema il vero costo aggiuntivo è semplicemente ridicola, visto che la gran parte di quel costo è legata all’incentivazione delle fonti rinnovabili e di essa, nel paper, non vi è menzione (pagina 21).
INDIPENDENZA ENERGETICA
In questo documento si raggiungono vette di faziosità incredibili proprio nella sezione dell’indipendenza energetica. La dipendenza tecnologica, nel momento in cui si entra in un nuovo mercato come protagonisti (leggere Smr) è completamente assente, sarebbe diverso qualora si volessero acquisire centrali e tecnologie estere, ma in un regime di crescita è noto che si debba entrare nell’economia. Il gioco è evidente, si accusa la nuova tecnologia dei mini reattori di essere troppo nuova, per cui non ci sono ritorni e costa troppo, ma al contempo si accusano i grandi impianti tipo l’Epr francese di essere una dipendenza tecnologica e di non dare l’indipendenza energetica: è un po’ come il Comma 22 di Joseph Heller. La tabella allegata (vedi qui), inoltre, è faziosa perché come indicato inizialmente non considera la variazione nel tempo dei costi di riprogettazione a fronte di nuove evidenze legate agli incidenti e non indica che stiamo delegando la produzione alla Cina e all’India, che investono in energia per le loro aziende, al contrario di noi.
DIPENDENZA DAL COMBUSTIBILE
Il peggior punto del paper è quello che parla di dipendenza dal combustibile. Il costo del combustibile con impatto sulla generazione è oramai noto e certificato anche dagli stessi autori, ed è del 2 per cento. Non cambia nulla se il costo dell’uranio arricchito raddoppia o triplica, ed i costi di arricchimento sono davvero minimi nel ciclo del combustibile, visto che forse solo il 2 per cento dell’energia prodotta è consumata nell’arricchimento. La tecnologia delle centrifughe è stabile e ampiamente disponibile per non parlare del riciclo dell’uranio e dell’uso di combustibile ossido misto (Mox).
DECARBONIZZAZIONE
L’unico punto in cui concordiamo con il documento riguarda il vantaggio nella decarbonizzazione del nucleare (vedi qui); la fonte è indubbiamente tra le migliori, se non la migliore per l’Italia che difficilmente costruirà impianti off-shore vista la profondità del Mediterraneo.
SCORIE
L’argomento scorie radioattive è sostanzialmente privo di significato. L’Italia ha già una quantità di scorie radioattive ragguardevoli che non sono stoccate da nessuna parte, ma posizionate in depositi temporanei in attesa del famigerato deposito nazionale. Ma anche le fonti rinnovabili producono (e molte) scorie: gli impianti fotovoltaici, ad esempio, specialmente quelli prodotti in passato, non hanno mai pagato la tassa di smaltimento e questo costo non è stato inserito nel paradigma. Quindi, se da un lato devi comunque creare un sito di stoccaggio definitivo, dall’altro, in molti casi, non hai neanche ben chiaro come e dove sostenere i costi di smaltimento. Già oggi, gli impianti al di sotto dei 10 chilowatt sono equiparati ai rifiuti Raee domestici, quindi eliminati dal confronto, anche se i loro costi sono assolutamente reali e non eliminabili.
(*) Responsabile Energia di Ripensiamo Roma
di Silvano Mattioli (*)