giovedì 17 luglio 2025
Il nuovo istituto dei “Cuav” suscita numerose perplessità etiche e scientifiche
Il 22 gennaio scorso è stato emanato il decreto ministeriale che stabilisce i criteri per il riconoscimento e l’accreditamento dei “Centri per uomini autori o potenziali autori di violenza di genere”, i cosiddetti Cuav, a firma del ministro della Giustizia, Carlo Nordio, e della ministra per la Famiglia, la natalità e le pari opportunità, Eugenia Roccella. I Cuav sono stati concepiti nel 2022, nell’ambito di un’intesa governo-regioni che faceva a sua volta seguito alla convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta alla violenza nei confronti delle donne e alla violenza domestica adottata a Istanbul l’11 maggio 2011, oltre che al piano strategico nazionale sulla violenza maschile contro le donne (2021-2023) presentato in Consiglio dei ministri il 18 novembre 2021. Si sente poco parlare di queste strutture e delle loro finalità. Da esperto di comportamento umano e da difensore dei princìpi liberali ritengo invece che sia doveroso diffondere alcuni chiarimenti sul senso di questo nuovo istituto ed esprimere qualche pensiero critico.
Dalla definizione contenuta nell’Intesa del 2022 si evince che i Cuav sono “strutture in cui si attuano programmi rivolti agli autori di violenza di genere per incoraggiarli a adottare comportamenti non violenti nelle relazioni interpersonali”, hanno come scopo la “netta assunzione di responsabilità della violenza da parte degli autori e il riconoscimento del suo disvalore” e “l’attuazione di un processo di cambiamento per il superamento degli stereotipi di genere e di ogni forma di discriminazione, disuguaglianza e prevaricazione”. Ancora dall’intesa del 2022: “I programmi per gli autori di violenza si basano sulla convinzione che sia possibile intraprendere un cambiamento, poiché la violenza nella maggior parte dei casi è un comportamento appreso e una scelta, che si possono modificare attraverso l’accompagnamento e la responsabilizzazione”. I Cuav sono insomma dei luoghi in cui si incoraggiano le persone a smettere di essere violente. Lodevole intento, si dirà. Tuttavia su queste finalità sorgono già alcune domande. Incoraggiare le persone a scegliere nel futuro comportamenti non violenti non è forse lo scopo della pena in generale, secondo quanto recita l’articolo 27 della Costituzione: “le pene devono tendere alla rieducazione del condannato”? Quale sarà mai la ragione di questa strana sottolineatura? Non è sospetto, inoltre, che venga rimarcato il fatto che i Cuav si fondano sulla convinzione che i comportamenti violenti possono essere abbandonati? Il messaggio che nelle carceri italiane sia diffusa la convinzione contraria non sembra tanto implicito.
Ma vediamo quali sono i criteri per accedere a queste strutture, si sa, perché il diavolo sta nei dettagli. Sebbene l’intesa del 2022 stabilisca che “il primo accesso viene effettuato tramite centralino telefonico, mail, colloqui informativi e/o conoscitivi” è abbastanza chiaro che l’accesso diretto dell’autore di reati che chiede un intervento per smettere di essere violento è solo un’illusione o più verosimilmente un’ipocrisia dei compilatori dell’intesa. L’accesso a questi “programmi” è nei fatti esclusivamente secondario alle segnalazioni da parte delle sezioni penali dei tribunali. Infatti “si accede al Cuav nell’ambito di misure alternative previste dall’Ordinamento penitenziario”. Per chi non avesse dimestichezza con il linguaggio giuridico, significa che le persone iniziano questi percorsi perché il loro avvocato li informa del fatto che hanno due alternative: o accettano il “programma rieducativo” o vanno in carcere. Ma il massimo dell’ipocrisia sta poche righe più sotto: “Anche nel caso di segnalazione da terzi, ivi compresi legali di parte o Servizi pubblici, è necessario che il contatto e le richieste di intraprendere il programma provengano direttamente dall’interessato” e “La valutazione iniziale è finalizzata a verificare la qualità ed il livello della motivazione”. È qui che si sviluppa tutta l’assurdità di questa grandiosa invenzione. Ti sei comportato in maniera violenta? Allora noi ti obblighiamo a curarti. Ma tu non devi dire che sei stato obbligato, devi dire che sei tu che vuoi spontaneamente iniziare un percorso di cambiamento.
In realtà, il concetto di “cura” non viene mai menzionato dai documenti sopracitati (in essi si parla sempre di “percorsi”, “programmi”, “interventi”), ma è specificato che i responsabili di questi percorsi rieducativi devono essere psicoterapeuti e può, quando “necessario”, essere coinvolto anche il medico psichiatra. Al termine del percorso i partecipanti vengono valutati ed è specificato che “la valutazione positiva non può basarsi esclusivamente sulla regolare partecipazione alle attività previste dal programma”. Non basta insomma partecipare, perché bisogna dimostrare di essere cambiati alla fine del percorso. Interessante la specificazione del decreto ministeriale del gennaio scorso: “Le valutazioni sono svolte dall’equipe multidisciplinare con metodi e strumenti validati dalla comunità scientifica nazionale e internazionale”. Vediamo allora cosa dice la letteratura scientifica riguardo all’efficacia delle “psicoterapie obbligatorie” (mandated therapies). L’evidenza suggerisce che la coercizione al trattamento è collegata a un esito negativo (Hachtel et al, 2019). Il dato interessante è che il fattore che più predice l’esito negativo di un percorso rieducativo è proprio la “coercizione percepita”. È dimostrato che un certo grado di coercizione viene percepita anche al di fuori dei setting giudiziari, figuriamoci quando si inizia il percorso solo per desiderio di un giudice.
Sono ancora poche le esperienze dirette di questi Cuav nel nostro Paese. Per ragioni professionali ho avuto modo di vedere all’opera uno di questi centri, qui nel profondo Nord. Al primo incontro di gruppo, una decina di uomini di tutte le età firmano una dozzina di documenti sulla riservatezza delle informazioni personali fornite, ma vengono poi edotti sul fatto che tutte le conversazioni verranno audioregistrate. Viene chiesto ai partecipanti che reato hanno commesso e “perché lo hanno fatto” (sic!). Viene loro spiegato che non potranno rifiutarsi di passare un minimo di 60 ore, divise in sessioni di due ore, a parlare della propria vita privata con perfetti sconosciuti, fornendo loro obbligatoriamente informazioni sulla propria identità e sulla propria residenza. Se salteranno più di due incontri il giudice verrà informato della cosa e dovranno ripetere tutto da capo, pena la decadenza dei criteri per la pena alternativa. Sono obbligati, ma devono ovviamente pagare di tasca propria tutto il percorso: il costo di un ciclo di sessioni si aggira attorno ai 1.500 euro.
Ancora, il percorso di cambiamento prevede nel frattempo la raccolta del “maggior numero possibile di fonti di informazione, in particolar modo il punto di vista della compagna o ex compagna, ma anche le segnalazioni della polizia e le informazioni provenienti da ogni altro tipo di ente/servizio che si occupi dell’autore o della sua famiglia”. Alla faccia della motivazione spontanea. I partecipanti al gruppo sul quale ho avuto informazioni dirette hanno infatti tutti iniziato la prima seduta con affermazioni come: “Io non ho scelto di venire qua”, “Sono stato obbligato a venire, non ho nulla da dire”, “Secondo me è tempo perso” e “Quanti incontri si possono saltare?”. Almeno uno di questi partecipanti, che aveva spontaneamente iniziato un proprio percorso psicoterapico in ambito privato, ha dovuto sospendere tale percorso per incompatibilità logistica con il percorso obbligatorio.
Era il 1978 quando Thomas Szasz (1920-2012), psichiatra e filosofo ungherese naturalizzato americano, pubblicava la sua antologia di scritti intitolata Lo Stato terapeutico. In quel volume, come (in diversa forma e con diversi argomenti) negli altri 30 libri e nei circa 700 articoli pubblicati nel corso della sua lunga e prolifica carriera, egli ribadiva alcuni dei concetti cardine del suo pensiero. In particolare egli afferma che gli psichiatri e gli psicoterapeuti hanno assunto oggi il ruolo che un tempo avevano i sacerdoti dell’Inquisizione: quello di indurre con la forza il “pentimento” (oggi chiamata “guarigione”) e di lavorare a braccetto con l’ordinamento giudiziario. Le argomentazioni szasziane sono molto stringenti e sono diventate oggi di estrema attualità, al punto tale che la sua lettura è attivamente scoraggiata nelle scuole di specializzazione in psichiatria. Esse infatti minano alle fondamenta la legittimità di due discipline, la psichiatria e la psicologia cosiddetta scientifica, la cui natura di pseudoscienza viene invece sempre da più parti e sempre più spesso denunciata a livello internazionale.
In un altro fondamentale testo del 1974, L’etica della psicoanalisi, Szasz paragona la relazione terapeutica alla relazione tra due persone che giocano assieme. Nel gioco ci sono regole e persino sanzioni, ma alla base del comportamento di due o più giocatori vi è la condivisione della scelta di giocare insieme. Nessuno può giocare a scacchi se viene obbligato a farlo. Quando anche si dimostrasse disposto a farsi spiegare le regole, cercherà di farsi mangiare il re fin dalla prima mossa. È da queste considerazioni e dalla logica confutazione del nesso di causalità tra diagnosi psichiatrica e comportamento che nasce la critica szasziana al concetto di “trattamento sanitario obbligatorio”. A sentire oggi parlare di Tpo, trattamento psicoterapico obbligatorio, Szasz si starà probabilmente rivoltando nella tomba.
Si dirà: un tentativo di psicoterapia male non può fare, anche se obbligatorio. Potrà succedere che in uno di quegli incontri l’autore di reati violenti ascolti argomentazioni che non avrebbe mai ascoltato se non fosse stato obbligato a rimanere lì, che senta storie di violenza subita e compiuta da altri e che ciò faciliti il suo cambiamento e, in ultima analisi, prevenga la violenza. Ecco in sintesi i difetti di questo ragionamento:
1) Se è così, non si capisce perché questi programmi non siano stati implementati da decenni anche nelle carceri e anche per tutti gli altri reati, per la corruzione, per i reati di tipo mafioso, per le rapine a mano armata, e perché no, anche per l’evasione fiscale. Se non è mai stato fatto è perché, a dispetto della Costituzione, la rieducazione imposta non serve a niente in termini pratici;
2) Allo Stato viene affidato il compito di condannare e sanzionare il comportamento violento, per ridurne la frequenza grazie ad un effetto di deterrenza. Riguardo alla prevenzione della violenza bisogna riflettere attentamente: se la rieducazione imposta non serve, come fa lo Stato a prevenirla? Con la tecnologia? Ipotesi interessante, abbiamo sentito tuttavia dalle recenti dichiarazioni del ministro Nordio che il sistema del braccialetto elettronico possiede intrinseche e insormontabili limitazioni: cosa può fare una donna che viene avvisata che il suo persecutore si sta di nuovo avvicinando, se non vi è (e non vi sarà mai) un numero sufficiente di agenti in grado di intervenire immediatamente? Riguardo alla prevenzione della violenza con la scienza, è utile forse ricordare che non esiste a oggi alcun modo per prevedere e prevenire con certezza scientifica il comportamento umano. L’idea dei “potenziali autori di violenza di genere” riporta alla mente la famosa novella di Philip K. Dick, Minority Report (del 1956), in cui una squadra di polizia specializzata arrestava i cittadini prima che commettessero reati, in base a un calcolo probabilistico: Anderton disse: “Ma sbattiamo dentro individui che non hanno violato nessuna legge!”. “Ma sicuramente la violeranno”, affermò Witwer con convinzione.
1) Non è nei diritti e nei doveri di uno Stato laico chiedere conto al cittadino delle intime motivazioni del suo gesto criminale: “Perché lo hai fatto”? Così come è oggi sotto attacco la proprietà privata (si veda il meraviglioso libretto La proprietà sotto attacco di Carlo Lottieri, pubblicato da Liberilibri, 2023), si sta assistendo a una crescente intromissione delle istituzioni nel privato, inteso qui come l’intimità dell’individuo. Questa invasione del pubblico nel privato sta assumendo un carattere sempre più pervasivo. Si rileva anche in ambito non penale, basti pensare al numero di “certificazioni” psichiatriche o psicologiche che vengono oggi richieste dalle pubbliche amministrazioni, e si fonda tra l’altro sull’irrazionale assunto che sia possibile per uno stato conoscere e certificare il reale pensiero e le vere intenzioni di un cittadino grazie al lavoro “investigativo” di uno psichiatra/psicoterapeuta connivente;
2) Parlare, anche se indirettamente, di psicoterapia obbligatoria del comportamento violento implica che esso poiché violento non sia da condannare, ma da curare in nome e per conto dello Stato. Uno psicologo che accetti di lavorare al servizio di un potere dello Stato, alimenta nel pubblico l’idea che il ruolo dello psichiatra e dello psicoterapeuta sia quello di essere parte integrante di un sistema di controllo pubblico sui cittadini e non, come deve essere, un professionista al servizio esclusivo del suo cliente, protetto dal segreto professionale e privo di contatti con il mondo esterno, men che meno con le istituzioni;
3) Il difetto più grave di questo nuovo istituto del Cuav è però il seguente: non si diffonde una cultura più “pacifica” con le costrizioni o con gli obblighi. Non si insegna ad essere meno violenti con la violenza. Lo Stato che obbliga con la forza i propri cittadini a cambiare atteggiamento, si comporta esattamente come si comportano gli autori di violenza di genere: “Fai e pensa quello che ti dico io, oppure te la faccio pagare”.
Ma allora è meglio per un condannato per violenza di genere finire in carcere che essere obbligato a un percorso riabilitativo? Siamo d’accordo che il carcere così come è concepito in Italia non serve ad altro che a dare ai detenuti ulteriori motivi per delinquere una volta usciti, per debiti contratti in cella o per contatto con nuovi network criminali. Un percorso di counseling può quindi sicuramente essere favorito nelle strutture carcerarie o nei percorsi alternativi alla pena detentiva, ma l’accesso ad esso deve essere esclusivamente volontario, con tutte le garanzie di segretezza e riservatezza, e deve essere pagato dal reo con il proprio lavoro, pena la sua insostenibilità e la sua totale inutilità. Volontario, segreto e riservato, ancorché gratuito, è anche l’accesso al cappellano o all’imam del carcere. In uno Stato laico non è tuttavia di penitenza che c’è bisogno, bensì di più lavoro: oggi solo il 30 per cento dei detenuti lavora, per poche ore alla settimana e solo per l’amministrazione penitenziaria, a fronte di dati che dimostrano che la recidiva del reato cala dal 60 per cento al 2 per cento se i detenuti lavorano per aziende private (dati Cnel 2024).
E poi c’è bisogno di più bellezza. A marzo di quest’anno il Teatro Regio di Torino, in sinergia con la Fondazione Compagnia di San Paolo, nel solco del più ampio progetto nazionale Per Aspera ad Astra – Come riconfigurare il carcere attraverso la cultura e la bellezza, ha proposto una versione ridotta del Rigoletto di Giuseppe Verdi nella casa circondariale “Lorusso e Cotugno” di Torino. Secondo l’autore dell’adattamento teatrale Vittorio Sabadin, e a detta della direttrice del carcere Elena Lombardi Vallauri l’iniziativa è stata un vero successo. Si rende merito all’agile e collaudato equipaggio di Momus (alias Laura Zanacchi e Sandro Cappelletto) per averne dato rilevanza nazionale su Rai Radio 3. Un centinaio di detenuti ha volontariamente chiesto di essere presente alla rappresentazione. Hanno riempito tutti i posti disponibili nella sala conferenze del carcere e hanno assistito in ammirato e totale silenzio ad un’ora e mezza di estratti dall’opera verdiana, accompagnati dal pianoforte e alternati a brevi testi esplicativi della trama. Alcuni detenuti hanno persino partecipato alla messa in scena. Ecco un esempio dell’intervento antiviolenza che ci si aspetta da uno Stato laico. Uno psicoterapeuta degno di questo nome non può avere dubbi sul fatto che vale di più un singolo ascolto volontario e ammirato di “Quel vecchio maledivami…” e “Cortigiani, vil razza dannata!” di mille percorsi pseudo-psicoterapici obbligatori. Tra l’altro la storia di Rigoletto e del Duca di Mantova è, guarda caso, proprio una storia di violenza di genere, da cui l’ascoltatore, libero o detenuto che sia, esce quasi inevitabilmente in lacrime, addolorato per la sofferenza di tutte le donne vittime di violenza e con la intima certezza che chi semina odio raccoglie vendetta.
(*) Psichiatra e psicoterapeuta
di Giovanni Perini (*)