mercoledì 2 luglio 2025
Con il divieto di fumo all’aperto, la Francia allarga ulteriormente i confini del controllo e riduce quelli della libertà
Non c’è fumo senza fuoco. E questa volta, ad accendersi, è però l’ambizione sempre più sfacciata dello Stato di definire ciò che è lecito fare anche in uno spazio aperto, anche all’aria libera. Dal 29 giugno, in Francia, è vietato fumare su spiagge, nei parchi pubblici, alle fermate di bus e tram e nel raggio di dieci metri da scuole, biblioteche e piscine. Una norma presentata con toni rassicuranti, motivata dall’igiene, dalla salute, dal rispetto per i bambini, la quale, tuttavia, dietro la patina benevola cela la volontà politica di forgiare individui conformi, modelli di comportamento unici, stili di vita approvati dall’alto.
È un passo ulteriore, e preoccupante, lungo il sentiero dello statalismo morale. Il ministro della Salute, Catherine Vautrin ha dichiarato di voler arrivare a una “generazione senza tabacco” entro il 2032. Il che equivale a una generazione “senza”, imposta per decreto, che rappresenta in sostanza l’anticamera di una società sterilizzata, disciplinata, incapace di tollerare la trasgressione. Ogni deviazione viene neutralizzata da un potere che si erge a educatore, medico e giudice morale.
Il paradosso è evidente: il fumo resta legale, ma è trattato come un crimine simbolico. Chi lo pratica viene spinto ai margini, stigmatizzato, silenziato. Anche un gesto compiuto in riva al mare o in un parco deserto diventa pretesto per sanzione. Il principio di non interferenza viene eroso, sostituito da una cultura della sorveglianza che traveste il controllo da cura collettiva.
L’individuo scivola così nel ruolo del minore da proteggere. Le scelte personali vengono condizionate non per impedire danni reali, ma per “salvare da sé stessi” coloro che non rientrano nei canoni virtuosi definiti dall’alto. Chi non si adegua finisce nel mirino di sanzioni, divieti, ammonizioni, rafforzando un proibizionismo soft che non vieta apertamente, ma rende impraticabile ciò che non è ben visto.
Invero, il punto non è difendere il fumo, bensì quello di salvaguardare la libertà. Una società libera si misura infatti dalla sua capacità di tollerare stili di vita che non condivide. Una persona che fuma all’aperto senza danneggiare altri esercita un diritto, non una minaccia. Eppure, il potere si sente legittimato a intervenire, convinto che solo ciò che è approvato debba restare permesso.
Questa idea di governance morale, definita da alcuni “salutocrazia”, mina alla base l’autonomia personale, e sotto la spinta di un’etica pubblica imposta, sostituisce la responsabilità individuale con un conformismo coatto. In tal modo, ogni scelta – dal cibo ai trasporti, dalle abitudini fisiche al linguaggio – viene assoggettata al giudizio di un’autorità che non si limita più a garantire l’ordine, ma pretende di plasmare la virtù. Anche lo spazio pubblico muta. Cartelli, avvisi, multe disegnano un paesaggio regolato nei dettagli, dove ogni deviazione comportamentale è intercettata. La gente non si muove più liberamente: è guidata da corridoi invisibili, sempre più stretti. In pratica, si può ancora scegliere, ma solo entro un perimetro stabilito da altri.
E la deriva è già percepibile altrove. In Spagna si parla di vietare le bevande zuccherate ai minori; in Olanda si limitano persino le pubblicità di carne e latticini. In Italia, oltre ai divieti di fumo all’aperto in città come Milano, si estendono zone a traffico limitato, non per ridurre l’inquinamento, ma per dissuadere l’uso dell’auto. Ogni volta si invoca il bene comune e si riduce allo stesso tempo l’autonomia.
Non è tuttavia un fenomeno nuovo. La storia ricorda che tra il 1920 e il 1933, gli Stati Uniti introdussero il divieto totale di alcolici. Il risultato? Un’esplosione di crimine organizzato, corruzione, disprezzo per la legge e consumo clandestino ancora più dannoso. La morale è una sola: non si migliora la società col divieto, si crea ipocrisia, paura, conformismo.
Il proibizionismo non è soltanto un errore di metodo, ma una negazione della libertà: trasforma la legge in uno strumento per modellare i comportamenti, anziché limitarsi a garantire i confini minimi della convivenza. Al posto della responsabilità individuale subentra l’obbedienza, e all’ordine spontaneo si sostituisce quello imposto dall’alto. Per effetto di ciò, l’individuo finisce per attendere che sia lo Stato a stabilire cosa è giusto e cosa no, rinunciando progressivamente al proprio giudizio.
L’essenza della libertà – dovrebbe essere ormai acquisito – non è il diritto di fare ciò che è raccomandato, ma di scegliere anche ciò che è controverso, sgradevole, imperfetto. Quella vera è faticosa, ambigua, disordinata. Nondimeno, è l’unico terreno sul quale possono prosperare la dignità, la creatività, la responsabilità. E soprattutto la tolleranza, che non nasce dal conformismo, ma dalla consapevolezza che nessun potere può stabilire per tutti ciò che è giusto in assoluto.
Per questi motivi, contro ogni tentazione di ingegneria morale, va riaffermato con determinazione il principio di non interferenza: finché un’azione non lede direttamente altri, lo Stato non ha alcun diritto di proibirla. Anche se disturba, offende il gusto dominante o appartiene a una minoranza, la libertà si difende nel margine, in quel confine sottile tra ciò che è appena tollerato e ciò che sfida il conformismo. È lì che si misura il coraggio di una società aperta.
Alexis de Tocqueville lo aveva colto con rara precisione, ammonendo: “Chi cerca nella libertà qualcosa altro che sé stessa è nato per servire”. Chi pretende di piegare la libertà a scopi più alti – sicurezza, salute, ordine – è già pronto, nel profondo, ad accettare le catene in cambio della tranquillità. La libertà non è un mezzo, è un fine. O la si difende nella sua interezza, oppure la si perde tutta. E lo aveva altresì compreso Étienne de La Boétie, cinque secoli prima, con una semplicità che brucia ancora oggi: “Siate decisi a non servire più, e sarete liberi”. Non esistono riforme dall’alto, governi benevoli o leggi illuminate in grado di sostituire la volontà dell’individuo di sottrarsi alla servitù. Se questa volontà si affievolisce, la libertà si spegne; se torna a farsi forza, tutto può rinascere.
di Sandro Scoppa