Parola alla difesa

sabato 28 giugno 2025


“Chi confonde la difesa tecnica con l’adesione morale al reato, non ha capito la funzione dell’avvocato, né il senso dello Stato di diritto”.

Difendere non è condividere: il senso profondo della difesa tecnica nel processo penale.

Nel dibattito pubblico, soprattutto quando si parla di reati gravi — violenza, omicidi, abusi — torna ciclicamente la stessa domanda, più o meno diretta: “Ma tu difenderesti anche lui?” Come se esistesse un limite morale oltre il quale il diritto alla difesa dovrebbe cessare. L’articolo 24 della Costituzione italiana è chiaro: “La difesa è diritto inviolabile in ogni stato e grado del procedimento.”

Difendere un imputato — qualunque imputato — non è una concessione etica, ma una garanzia giuridica.
L’avvocato non è il complice del reato, né la voce del reo. È il presidio della legalità. La controparte necessaria dell’accusa. È ciò che rende il processo un luogo di confronto, e non una macchina di condanna automatica. C’è chi pensa che accettare di difendere qualcuno significhi approvare ciò che ha fatto.

È un equivoco pericoloso, perché riduce la funzione difensiva a un fatto personale, identitario, quasi emotivo.
Ma il penalista non difende la persona in quanto buona, né il fatto in quanto giusto. Difende il diritto di quella persona ad avere un giudizio equo, basato su prove, norme e garanzie.
Non si tratta di morale, ma di metodo. Di diritto. Il diritto penale è uno strumento affilato, selettivo, pericoloso.
Proprio per questo, la sua applicazione deve essere rigorosa, garantita, reversibile. Accusare e condannare non sono atti etici, ma atti tecnici. E per ogni accusa, deve esserci una difesa. Perché senza difesa, non esiste contraddittorio. E senza contraddittorio, non esiste giustizia.

Il processo penale è un percorso in cui si accerta un fatto, non si giudica una persona nel suo insieme.
Chi è imputato resta — fino a sentenza definitiva — titolare pieno di diritti: presunzione d’innocenza, diritto al silenzio, diritto alla prova, diritto alla parola. E chi esercita la difesa non “sceglie da che parte stare” tra bene e male.
Sta, giuridicamente e costituzionalmente, dalla parte del processo equo.

In sintesi: difendere un imputato non è un atto di adesione. È un atto di civiltà.
Lo Stato di diritto si misura non nella protezione dei “buoni”, ma nella capacità di garantire i diritti anche a chi è socialmente, mediaticamente o moralmente isolato. Quando il diritto alla difesa diventa facoltativo, la democrazia è già compromessa. E chi lo dimentica, forse ha bisogno di sentirsi “dalla parte giusta”, ma ha smarrito il senso della giustizia.


di Camilla Malatino