venerdì 13 giugno 2025
Riceviamo e pubblichiamo dal carcere romano di Rebibbia una lettera a firma di Gianni Alemanno e Fabio Falbo, indirizzata anche al presidente Sergio Mattarella e al ministro della Giustizia Carlo Nordio.
Signor Ministro, Egregio Presidente,
ci rivolgiamo a voi per raccontare un caso esemplare di una realtà che grida giustizia e che interroga profondamente la nostra coscienza civile e costituzionale: quella delle persone detenute ultrasettantenni, i cosiddetti “nonnetti” rinchiusi nelle carceri italiane, come nel nostro reparto GS di Rebibbia, dove ci sono cinque detenuti oltre o prossimi agli ottant’anni.
Negli scorsi giorni è stata diffusa la notizia di un ex-imprenditore di 94 anni, Renato Cacciapuoti, tradotto nel Carcere di Sollicciano per reati fiscali commessi quindici anni prima e, per fortuna, assegnato alla detenzione domiciliare dopo cinque giorni di permanenza in carcere.
Noi vogliamo aggiungere alla vostra attenzione il caso esemplare di Antonio Russo (87 anni), che il 4 giugno scorso si è visto rigettare dal Tribunale di sorveglianza di Roma l’ennesima istanza di differimento pena avanzata per la sua età e per le sue precarie condizioni di salute.
Antonio Russo è in carcere dal 2022 per una condanna definitiva a 12 anni di reclusione per un omicidio commesso nell’anno 2018. Si tratta di una triste storia di violenza cominciata dopo che Antonio Russo aveva sposato Rosa Ruffo, una vedova con cinque figli a carico e da cui ha avuto un ulteriore figlio. Russo ha fatto da padre a questi sei giovani che ha sostenuto economicamente con il proprio lavoro di “parchettista”, essendone ricambiato da tutti con rispetto e affetto. Da tutti meno che dal più giovane dei suoi figliastri, Giuliano Lacopo, tossicodipendente dedito alla violenza, che, per estorcere soldi e proprietà, ha per anni aggredito e picchiato sia Antonio Russo che sua moglie Rosa Ruffo. La situazione si fece talmente grave da provocare la morte per disperazione della signora, costretta a fuggire dalla sua abitazione. Ebbene, dopo questo tragico evento, Antonio Russo ha reagito all’ennesima aggressione del giovane, accoltellandolo a morte mentre veniva picchiato selvaggiamente.
La situazione di disperazione e di sostanziale legittima difesa in cui è maturato quel gesto, emerge dal fatto che nel giudizio i fratelli e sorelle di Giuliano Lacopo non si sono costituiti parte civile, perché loro stessi subivano abusi e minacce di ogni genere. Anche il vicinato e il quartiere in Antonio Russo abitava, gli hanno sempre dimostrato solidarietà e vicinanza, proprio perché testimoni della violenza da lui subita per anni.
A dimostrare la mancanza di pericolosità sociale di Antonio Russo c’è anche il fatto che, dopo essersi consegnato alle Forze del1’Ordine il 30 aprile 2018 e aver scontato tre mesi di galera, è stato posto agli arresti domiciliari per 3 mesi e poi in libertà condizionale per quasi quattro anni fino alla sentenza di Cassazione del 30 settembre 2022. Senza creare, in tutto questo tempo a piede libero, alcun problema di sicurezza e anzi mantenendo un comportamento esemplare.
Oltre a queste circostanze, nel corso dei tre anni di detenzione fino a ora sopportati le condizioni di salute di Antonio Russo sono nettamente peggiorate, come è stato certificato dalle autorità sanitarie competenti, per l’insorgere delle patologie di ipertensione arteriosa, cardiopatia ipertensiva, episodi di orctena extrasistolica, esofagite, artrosi, insufficienza venosa con problemi agli arti inferiori, patologie per le quali il carcere offre possibilità di cura molto incerte e precarie, anche per la nota carenza di scorte per la traduzione dei detenuti nelle strutture ospedaliere esterne.
Ma nel rigetto depositato il 4 giugno 2025 dal Tribunale di sorveglianza di Roma si legge che: “nella relazione sanitaria del 14 aprile 2025 della ASL Roma 2 si dà atto che le condizioni cliniche del Russo, affetto dalle patologie sopra elencate, sono “discrete”, essendogli garantite in carcere e le cure di cui necessita, assumendo egli regolarmente le terapie prescrittegli” e per questo motivo, oltre che per una “pericolosità sociale che non deve comunque essere sottovalutata”, viene rigettata la richiesta della detenzione domiciliare ad una persona di 87 anni.
Questo, nonostante la Corte costituzionale con sentenza 56 del 2021 abbia stabilito che i condannati che hanno più di settant’anni possono beneficiare della detenzione domiciliare perché “è illegittimo il divieto assoluto alla misura alternativa prevista dall’articolo 47 ter primo comma del codice penale, in quanto la magistratura di sorveglianza dovrà valutare la residua pericolosità del reo e, la maggiore sofferenza che la detenzione in carcere potrebbe determinare agli anziani. La preclusione assoluta alla misura alternativa è in contrasto con i principi di rieducazione e umanità della pena che, invece, favoriscono la detenzione domiciliare e per gli anziani”.
Quale funzione rieducativa può avere la pena per chi ha 90 anni? Quale pericolosità sociale può rappresentare un uomo che fatica a camminare, che ha bisogno di assistenza per le proprie cure quotidiane? La nostra Costituzione, all’articolo 27, afferma che la pena deve tendere alla rieducazione del condannato. Ma come può esserci rieducazione quando la pena diventa solo afflizione per una persona al termine della sua vita? Quando il carcere si trasforma in un luogo di sofferenza fisica e psicologica, incapace di garantire cure adeguate, assistenza, umanità? È giusto ignorare che l’età avanzata, da sola, costituisce una condizione di fragilità e vulnerabilità? Il legislatore ha già riconosciuto, in via teorica, la presunzione relativa di incompatibilità tra carcere e età avanzata, prevedendo misure alternative per gli ultrasettantenni. Ma nella pratica, tutto è affidato alla discrezionalità del giudice, generando disparità e ingiustizie. Non si tratta di negare la giustizia, ma di renderla umana, proporzionata, costituzionale.
Facciamo appello a Voi, Signor ministro ed Egregio Presidente, perché nessun altro “nonnetto”, a cominciare da Antonio Russo, debba morire solo, malato e dimenticato in una cella. Perché la Costituzione non resti lettera morta, ma viva nei volti e nelle storie di chi oggi chiede solo un po’ di umanità.
Con deferenza.
Rebibbia, 11 giugno 2025
di Redazione