lunedì 9 giugno 2025
Se indignarsi è più che legittimo, riflettere è più che mai doveroso. Un esercizio quanto mai necessario per spingere l’opinione pubblica a compiere finalmente un’analisi critica e razionale e chiedersi seriamente: “Perché?”. Com’è stato possibile che “u scannacristiani”, uno che possiede un curriculum criminale con all’attivo approssimativamente centocinquanta omicidi (omicidio più, omicidio meno), tra cui quello tristemente noto del giovane Giuseppe Di Matteo, figlio del pentito Santino, strangolato e poi sciolto barbaramente nell’acido a soli quindici anni, sia da qualche ora, a tutti gli effetti, un uomo libero? Perché, inaccettabile ma vero, dopo un periodo di “transizione” durato circa quattro anni (in cui il capomafia, poi pentito, originario di San Giuseppe Jato ha potuto fruire della misura alternativa della libertà vigilata), Giovanni Brusca ha definitivamente estinto il debito contratto con la giustizia e riacquistato la piena libertà. Decisiva, ai fini della preventiva scarcerazione del boss palermitano, si è rivelata la scelta, maturata da Brusca nel 2000, di intraprendere un percorso di collaborazione con la giustizia che ha avuto nel corso degli anni, come sottolineato da Maria Falcone, sorella di Giovanni, “un significativo impatto sulla lotta dello Stato contro Cosa nostra”. E ciò, per quanto attiene la cronaca. Ma torniamo pure al punto di partenza della nostra analisi: l’indignazione. Un sentimento, come detto, ampiamente giustificato, del tutto lecito, che in queste ultime ore dilaga in un lungo e in largo nel Belpaese, occupando, anche in tal caso giustamente, tutte le prime pagine dei principali quotidiani, tutti concordi nel definire Giovanni Brusca come “l’uomo che azionò il telecomando” (utilizzato nella strage di Capaci).
Il telecomando, appunto. È questo lo snodo cruciale dell’intricata questione, il punto focale su cui dover centrare l’attenzione nel tentativo di fare luce sulle tante zone d’ombra che tutt’oggi aleggiano su Capaci e comprendere le reali ragioni che hanno permesso al “macellaio” di San Giuseppe Jato di riacquistare preventivamente la libertà nonostante la spaventosa quantità e la cruda efferatezza dei delitti commessi nella sua lunga e variegata carriera criminale. A tal proposito, può risultare utile porsi qualche lecito interrogativo. Primo: siamo proprio certi che ad azionare il tristemente noto telecomando che fece letteralmente saltare in aria Giovanni Falcone, Francesca Morvillo e i tre agenti della scorta in quel tragico 23 maggio 1992 fu realmente Giovanni Brusca? O meglio, specifichiamo, il “vero” telecomando che innescò quei 500 chili di tritolo che diedero origine alla tragica esplosione. Secondo: chi c’era quel giorno dall’altra parte del cavalcavia, proprio di fronte agli uomini di Cosa nostra inchiodati dalle cicche di sigarette analizzate dall’Fbi che contribuirono a dare un marchio di fabbrica a quella cruenta strage? E infine: è verosimile che in tutti questi anni Giovanni Brusca sia stato usato al fine di avvalorare la tesi della matrice mafiosa del cosiddetto “attentatuni”? Se così fosse, allora si spiegherebbero davvero tante cose, a cominciare dalle reali motivazioni che hanno consentito al “boia di Capaci”, come oggi lo definisce la stampa, di poter godere di una così alta forma di tutela da parte di quello stesso Stato a cui, più di tre decenni or sono, gli spietati boss di Cosa nostra, ivi compreso lo stesso Brusca, avevano ufficialmente dichiarato guerra.
di Salvatore Di Bartolo