lunedì 26 maggio 2025
Lavora, risparmia, investe, cresce figli e regge il Paese. Ma viene tartassata, ignorata e colpevolizzata. E ora inizia a crollare.
È il cuore pulsante dell’Italia, la sua spina dorsale. Nonostante ciò, la borghesia oggi si scopre bersaglio fiscale, emarginata dai benefici, esclusa dal dibattito. Secondo il nuovo rapporto Cida-Censis, due italiani su tre si riconoscono in detta fascia sociale, ma oltre la metà teme che i propri figli vivranno peggio. Il 70 per cento chiede meno tasse sui redditi lordi, l’80 per cento denuncia un divario insostenibile tra quanto versa allo Stato e quanto riceve in cambio. Il 45 per cento ha già ridotto i consumi. È il segnale di un sistema che anziché premiare chi lavora, punisce la virtù.
La stessa, tuttavia, esprime il ceto medio che non alza la voce per invidia, ma perché ogni sforzo sembra inutile, per frustrazione. È la parte che sostiene l’economia reale: lavora, risparmia, forma i figli, paga per tutti. Ma più si comporta in modo responsabile, più viene colpita. Gli aiuti le sfuggono, la pressione fiscale la opprime, ogni avanzamento si traduce in una penalizzazione. In un contesto del genere, dove il miglioramento personale diventa una colpa, anche la speranza di salire si spegne. E con essa, la fiducia nella mobilità sociale.
Il tempo delle analisi è ormai alle spalle: ciò che serve oggi sono scelte nette e coraggiose. L’attuale redistribuzione non protegge i più fragili, ma indebolisce chi garantisce coesione e continuità. Le politiche fiscali appaiono calibrate per rispondere a pressioni di breve periodo, rivolte a gruppi organizzati e voci più rumorose, mentre vengono sistematicamente ignorati coloro che, pur contribuendo in modo sostanziale alla tenuta del sistema, non reclamano visibilità. In questo squilibrio, il merito viene oscurato, la responsabilità penalizzata, e il tessuto economico e sociale perde le sue fondamenta più solide.
È in siffatto contesto che la retorica della “giustizia sociale” rivela il suo volto più insidioso. Da tempo serve a giustificare interventi redistributivi che colpiscono il merito e premiano l’appartenenza. Un inganno che Friedrich A. von Hayek aveva già smascherato: “La fede diffusa nella giustizia sociale è probabilmente al giorno d’oggi la minaccia più grande nei confronti della maggior parte degli altri valori di una civiltà libera”. La promessa di eguaglianza dei risultati ha sostituito quella di uguaglianza davanti alla legge. Ma così si cancella la libertà individuale e si annienta la fiducia nel futuro.
Il 51 per cento dei genitori spera che i figli trovino opportunità all’estero. Non è solo un dato sociale: è un terremoto morale. Una generazione che suggerisce ai propri figli di lasciare il Paese certifica la fine della speranza nella giustizia e nel progresso. La classe intermedia citata, maggioranza silenziosa, non emigra per disperazione, ma per mancanza di prospettive. E dove non c’è più fiducia nella possibilità di salire, il sistema implode.
Si ignora troppo spesso che una società aperta, governata dal sistema democratico e basata sull’economia di mercato, si regge proprio su questa classe sociale intermedia, capace di coniugare responsabilità e autonomia. È dalla fascia intermedia della popolazione che nasce la stabilità politica, la cultura del lavoro, la difesa della proprietà privata e delle libertà civili. Eppure, nel dibattito pubblico italiano, è sistematicamente marginalizzata, anzi trattata come un bersaglio da colpire. Il risultato è che si spezza il delicato equilibrio tra contributo e contropartita, tra dovere e riconoscimento. La sua erosione coincide con il declino della libertà, perché solo dove esiste una classe intermedia prospera e fiduciosa, le istituzioni restano credibili e limitate.
La fiducia si incrina anche perché si è trasformato il cittadino in suddito fiscale, privo di certezze e continuamente sottoposto a regole mutevoli. I sistemi premiali sono stati sostituiti da sussidi arbitrari, i contratti da bonus, la crescita da elemosina. L’idea che salire di reddito equivalga a perdere diritti non è solo ingiusta: è pericolosa. Disincentiva l’impegno, mortifica lo sforzo, scoraggia l’emersione. La “trappola del ceto medio” non è un’espressione giornalistica, è un paradosso istituzionale.
Il patto fiscale va riscritto, e subito. Occorre un sistema che non umili chi lavora, che non veda in chi produce solo un bancomat. Servono regole generali, semplici, applicabili a tutti. Non privilegi di casta o bonus a tempo. Chi costruisce ricchezza va sostenuto, non ostacolato. Chi crea valore è una risorsa, non un sospetto. E chi regge l’Italia non può essere colpito due volte: dal fisco e dall’oblio.
Per troppo tempo si è creduto che la sola redistribuzione potesse garantire equità. Ma quella autentica non nasce dalla forzatura dei trasferimenti, bensì dal rispetto delle regole, dalla responsabilità personale e da una solida fiducia nelle istituzioni. È su questi principi che si regge la forza del ceto medio, la spina dorsale della società, ed è da qui che ogni progetto politico serio dovrebbe ripartire.
Quando questa fiducia si incrina – perché il potere oltrepassa i suoi limiti, le regole si fanno arbitrarie e le istituzioni cessano di garantire ordine e prevedibilità – anche la libertà comincia a vacillare. In una società dove il cittadino non riconosce più coerenza, legalità e protezione, crescono la paura e il risentimento, e la coesione civile si disgrega. Se questa spirale non viene fermata, il declino non sarà solo economico, ma anche culturale e morale. La vera urgenza non è rincorrere l’uguaglianza dei risultati, ma ricostruire le condizioni affinché ciascuno possa tornare a fidarsi del proprio futuro.
di Sandro Scoppa