lunedì 26 maggio 2025
Lo scorso 21 aprile, poco più di un mese fa, Papa Francesco moriva nella Domus Santa Marta. Una calata di sipario quasi mistica, all’indomani della Domenica di Resurrezione. Il papa argentino ha guidato la Chiesa per dodici anni: un pontificato divisivo, il suo. Fatto di esternazioni spesso poco “pontificali”, di approcci alla gente talvolta incontrollati, tutte manifestazioni di un sangue tanguero e di un carisma certamente forte. In questo mese si è pianta la sua morte, abbiamo seguito gli incontri tra i cardinali, ci siamo letteralmente inseriti nell’affascinante e misterioso rito del Conclave – il primo della storia ad aver avuto una copertura più da intrattenimento che giornalistica – e abbiamo ammirato l’azione dello Spirito Santo nella scelta del missionario Robert Francis Prevost, che richiamando le sfide sociali affrontante più di un secolo fa da Papa Leone XIII (Vincenzo Gioacchino Raffaele Luigi Pecci) ha scelto di chiamarsi Leone XIV. “Morto un papa se ne fa un altro”. Sembra che questa frase, vagamente sadica se pronunciata con distacco, porti con sé il destino di ogni papa, cioè essere dimenticato non appena dalla Loggia di San Pietro se ne affacci uno nuovo.
Ma nessun papa, in realtà, si può dimenticare. Jorge Mario Bergoglio manca a molti. Manca addirittura a me, che non sempre ho usato parole morbide nei suoi confronti: sono orgoglioso di aver fatto parte di quelle persone critiche ma rispettose. Le dimissioni di Joseph Aloisius Ratzinger in molti hanno prodotto un pregiudizio ingiustificato nei confronti del suo successore: Bergoglio non era legittimo, era un usurpatore, il papa era ancora Benedetto XVI e così via. Come ho già detto, il pontificato di Francesco ha prodotto le devianze comunicative peggiori degli ultimi decenni. La verità è che Bergoglio è stato un papa ibrido, conservatore puro nella dottrina e sicuramente rivoluzionario (anche se questo termine dovrebbe scomparire dai giornali) nell’aspetto liturgico, estetico e comunicativo. Da parte sua, non c’è stata alcuna modifica all’impianto dottrinale lasciato da Giovanni Paolo II e da Benedetto XVI: non ha modificato nulla, per fortuna. Tutte le posizioni – quelle importanti, ad esempio i temi etici – sono rimaste invariate. Le sue aperture erano, come ho detto, esternazioni. Riflessioni ad alta voce che non hanno mai trovato applicazione nella dottrina scritta. Ha sicuramente reso religiosamente coinvolgente tutto quel pesante filone dell’ambientalismo e dell’ecologismo – e questo continuo a vederlo come un aspetto poco positivo del suo pontificato – e ha cambiato per più di un decennio l’immagine liturgica del papa, con la scelta di non indossare mai l’abito corale ora ristabilito da Leone XIV. Papa Francesco ha implorato la pace quando nel mondo nessun leader voleva vedere – e ammettere – quello che stava succedendo nelle periferie del nostro continente, del vicino Oriente e dell’Africa.
Ha chiesto che cessassero i conflitti quando i presidenti di turno o qualche indegno ministro degli Esteri si sedevano al tavolo illudendo miliardi di persone che qualcosa potesse cambiare da lì a mezz’ora dopo. Questo non va dimenticato. Per me, nessun altro ha tenuto alla pace quanto Bergoglio. E questo, a distanza di un mese dalla sua morte, mi fa finalmente apprezzare – o comunque guardare più positivamente – al suo Governo. Papa Leone, l’americano-peruviano, è partito con le stesse parole che avrebbe usato Bergoglio se il giorno di Pasqua avesse avuto più forza: “Pace a voi!”. L’annuncio che diventa storia, e che trasforma l’uomo di Nazareth nel primo messaggero di pace. Adesso Bergoglio riposa nel luogo che ha amato (forse più del Vaticano!) e sul trono di Pietro c’è la persona che qualcuno (o Qualcuno) ha scelto per questa nuova fase della Chiesa. Ogni papa interpreta il suo ruolo e soprattutto interpreta le sfide che il mondo presenta.
Le sfide che dovrà affrontare Prevost sono tante: aiutare i potenti affinché si ristabilisca la pace, avere il polso spirituale del Cattolicesimo e ammettere che qualcosa negli anni è andato storto e che c’è tanto da fare sul piano della trascendenza, e soprattutto assicurarsi che nessuno turbo-capitalismo possa continuare ad annullare interi sistemi economici. In buona sostanza: non deve dimenticarsi dei poveri. Ne ha conosciuti più lui di Bergoglio, e questo fa ben sperare. Vorrei che la Chiesa, e quindi il papa, tenesse bene a mente le parole di Paolo VI, che nella Populorum progressio scriveva: “I popoli della fame interpellano in modo drammatico i popoli dell’opulenza. La Chiesa trasale davanti a questo grido d’angoscia e chiama ognuno a rispondere con amore al proprio fratello”. Sono sicuro che Leone XIV saprà rimettere la Chiesa nel giusto baricentro spirituale e porterà lo sguardo di tutti sulle vite disperate dei dimenticati.
di Enrico Laurito