lunedì 12 maggio 2025
Vito Mancuso individua nella recente omelia di Papa Leone XIV due “passaggi stonati” che meritano attenzione critica. Il primo, di carattere strettamente teologico, riguarda l’insistenza del Pontefice sulla divinità di Cristo come elemento imprescindibile della fede cattolica autentica. Mancuso contesta questa posizione citando figure come Newton, che “negava la divinità di Gesù esattamente secondo quella impostazione non conforme a Nicea criticata dal Papa, senza per questo cessare di credere”.
Dal mancato riconoscimento della divinità di Cristo, Mancuso fa derivare il secondo elemento critico nei confronti di queste prime affermazioni del nuovo pontefice: la possibilità di un’etica pienamente realizzata anche al di fuori della fede cattolica. “Tanto per fare un nome”, scrive, “cito appunto Gino Strada, il quale non ha avuto bisogno della fede in Dio per fare un mucchio di bene”. Questa affermazione, apparentemente innocua, si colloca in diretta opposizione alla tesi del Pontefice secondo cui esiste una connessione necessaria tra il riconoscimento della verità cattolica nella sua integrità (inclusa la divinità di Cristo) e il pieno sviluppo etico dell’uomo.
Mancuso conclude che le religioni − compresa la religione cattolica − dovrebbero limitarsi a “risvegliare l’umanità” portandola ad interrogarsi sulla verità e sul mistero dell’universo “senza pretendere di possederlo del tutto”.
Ciò che colpisce nel ragionamento di Mancuso è l’apparente ingenuità con cui pretende di separare l’essenza del cattolicesimo dal suo nucleo fondante. Chiedere alla Chiesa cattolica di considerare “accessorio” il dogma cristologico significa chiedere al cattolicesimo di cessare di essere se stesso. La pretesa è tanto singolare quanto sarebbe domandare all’acqua di restare se stessa privandola dell’ossigeno che la costituisce.
La divinità di Cristo non rappresenta un elemento accidentale o marginale della dottrina cattolica, ma ne costituisce l’essenza irrinunciabile, il fondamento ontologico su cui l’intera struttura dottrinale si edifica nella sua necessità. Negare tale dogma equivale a dissolvere l’identità stessa del cattolicesimo nella sua determinazione storica e metafisica. Non ci troviamo di fronte a una tra le molte possibili declinazioni teologiche, ma dinanzi al principio primo che conferisce al cattolicesimo la sua specifica identità nel panorama delle configurazioni del sacro.
Il paradosso logico è lampante: Mancuso vorrebbe un Papa che, negando la divinità di Cristo o considerandola inessenziale, cesserebbe ipso facto di essere cattolico e dunque anche Papa. Siamo di fronte alla pretesa che un’istituzione millenaria si auto-dissolva per compiacere alle velleità di un pensiero che si arroga il diritto di ridefinire l’identità altrui.
E qui si manifesta il legame intrinseco con il secondo “rimprovero” mosso al Pontefice: il presunto carattere opprimente dell’affermazione di una verità assoluta. L’appello di Mancuso alle religioni che dovrebbero “risvegliare l’umanità senza pretendere di possederla” è figlio di quel relativismo che ha elevato l’indeterminatezza a virtù suprema. Ma si tratta di un relativismo che nasconde una contraddizione esiziale.
Quando si afferma che la verità è inaccessibile o che nessuno può pretendere di “possederla del tutto”, si sta implicitamente elevando questa stessa affermazione a verità assoluta, contraddicendo così il principio che si vorrebbe stabilire. La negazione della possibilità di attingere alla verità si configura essa stessa come un’affermazione assoluta che pretende di valere al di là di ogni limite e condizionamento storico. L’impossibilità di possedere la verità diventa, nella prospettiva di Mancuso, l’unica verità indubitabile: suprema contraddizione che corrode le fondamenta del suo stesso argomentare.
Sorge spontanea la domanda: se la verità è per principio irraggiungibile, per quale motivo dovremmo impegnarci nella sua ricerca? Se il termine del viaggio è dichiarato a priori irraggiungibile, il viaggio stesso perde significato, diventa un mero esercizio di stile. Il “risvegliare l’umanità” senza una meta definita equivale a destarla per condurla in un perenne vagabondaggio privo di direzione.
La ricerca autentica presuppone la possibilità del suo compimento, giacché l’assenza di tale possibilità renderebbe la ricerca stessa un’impresa priva di senso, un moto perpetuo destinato a consumarsi nella propria circolarità. L’inquietudine che anima l’essere umano nella sua tensione verso l’Assoluto trova il suo fondamento nella possibilità − per quanto ardua − di un approdo, di un riposo nella verità cercata.
La peculiare concezione di Mancuso rappresenta, in ultima analisi, l’esito estremo di quel percorso che, negando la possibilità di una verità assoluta, finisce paradossalmente per assolutizzare l’incertezza. È la contraddizione dell’inessenziale che pretende di ergersi a essenziale.
Naturalmente, non sto sostenendo che il cattolicesimo non presenti aspetti problematici che possano e debbano essere messi in questione proprio in nome di quella verità tanto cara al cattolicesimo stesso, ma ciò non significa che lo si possa fare con gli argomenti spuntati con cui Mancuso crede (in questo sì che lo definirei un sincero credente) di chiudere i conti con la grande riflessione filosofica cristiana.
di Claudio Amicantonio