mercoledì 30 ottobre 2024
È di questi giorni la notizia circa la schiacciante maggioranza con la quale gli abitanti della Val di Sole, in Trentino, ha preso posizione sul tema del ripopolamento di orsi e lupi nel loro territorio affermandone la pericolosità. Devo subito dire che anche io avrei votato in questo modo per una serie di ragioni che vanno al di là della pur decisiva questione del pericolo. Al centro si pone la tendenza verso la iper-razionalità che caratterizza da molti decenni la cultura occidentale. Si tratta del dominio crescente di quelle che, negli anni Sessanta, venivano chiamate “teste d’uovo”, ossia esperti e studiosi i quali, forti della propria visione spesso puramente astratta, dispensavano teorie e previsioni di larghissimo raggio quasi sempre negative e catastrofiche divenendo veri e propri influencer ante litteram. Se ne possono ancora ricordare le tracce pensando al famoso I limiti dello sviluppo del Club di Roma e se ne vedono tuttora i segni nei vari personaggi che cavalcano il Global warming con l’aria di orgogliosi cavalieri dell’Apocalisse. Lo stesso destino sta avendo la retorica della “biodiversità” sulla quale, pur trattandosi di un argomento scientifico molto serio, si sta rinnovando la tendenza verso previsioni fosche e drammatiche denunciandone la criticità dovuta primariamente, inutile dirlo, alle conseguenze nefaste delle attività dell’uomo. Il ripopolamento artificioso, in un certo territorio, di specie minacciate dall’estinzione è un esempio di questa nuova forma di iper-razionalità.
In fondo, si tratta di un ragionamento piuttosto semplice ma, in realtà, pericolosamente semplicistico: gli orsi stanno scomparendo? Allora importiamone qualche decina e facciamo in modo che si riproducano, con ciò trascurando il fatto che, se le cause ambientali che hanno dato il via all’estinzione, rimanessero immutate, lo spopolamento dopo un po’ ricomincerebbe. Ad ogni modo, in termini generali, l’obiezione principale ha due aspetti: il primo è il fatto che nessuno sa di quanti orsi e lupi c’è bisogno per ricreare l’equilibrio perduto in un dato territorio; il secondo è che, imponendo una variazione non naturale alla dinamica naturale si corre il rischio, quasi certezza, di mettere inconsapevolmente in moto processi di riassetto imprevedibili. Ciò è dovuto al fatto che i milioni di organismi viventi che danno luogo alla elevatissima complessità del mondo naturale, intrattengono fra loro relazioni il cui equilibrio è perennemente dinamico e corre per conto suo, includendo le attività umane, senza che ne possiamo individuare la “chiave di volta”, per il semplice motivo che non c’è.
È facile intuire che, se possedessimo lo spaccato di tale equilibrio, cioè la fotografia dell’equilibrio in un certo momento del passato, ci troveremmo di fronte a quantità e qualità assai diverse nel 1000 avanti Cristo rispetto al 1000 dopo Cristo, nel 1800 rispetto al 2000 e così via. Sorge allora la domanda: il ripopolamento, a quale equilibrio “giusto” mira, ammesso e non concesso che uno lo conosca per bene? Le domande critiche potrebbero moltiplicarsi a piacimento: di quanti cavalli ha bisogno oggi l’equilibrio mondiale? Anticamente ve ne erano pochi milioni mentre oggi si stimano in una settantina di milioni. Quale era ed è il contributo quantitativo di cavalli più “idoneo” all’equilibrio complessivo? E potremmo continuare con l’elencazione di migliaia di specie che si sono accresciute oppure rarefatte, scomparse o apparse ex novo.
Sia chiaro. È intuitivo che l’accrescimento della popolazione mondiale avvenuto negli ultimi 150 anni e la tecnologia di cui dispone sono fattori molto rilevanti nel determinare mutamenti della stessa biosfera. Non è però detto che, da un lato, si tratti sempre e solo di mutamenti negativi e, dall’altro, si conosca con precisione il modello verso il quale sarebbe bene puntare. Il quadro complessivo che sta emergendo, con miriadi di interventi a sostegno di questa o quella specie, assomiglia a un abito sul quale si stanno operando rattoppi a non finire, uno qua e l’altro là, dando luogo a un insieme privo di qualsiasi significato perché, ripeto, nessuno sa in modo definitivo quale configurazione originaria dovremmo ripristinare.
Una configurazione arlecchinesca che, comunque, è risibile e meno grave di quanto sarebbe l’imposizione ultra-razionale, a tutti gli Stati del mondo, di un unico modello di biosfera globale verso il quale orientarci. Quella sarebbe davvero una catastrofe perché puntare su una configurazione sui miliardi di configurazioni possibili vorrebbe dire lasciare al banco, cioè alla natura, una sicura e facile vincita finale. Personalmente, pensando a una specie di animali o di piante in via di estinzione, provo qualche emozione quando si tratta di organismi che apprezzo affettivamente o esteticamente. Ma pretendere di mettere o, anzi, rimettere ordine – senza mai chiarire quale – in una dinamica troppo complessa mi sembra solo un atto di ingenua presunzione tipico di un’epoca nella quale troppi uomini sono inclini a trattare i grandi numeri, come quello, fra gli altri, delle specie e delle loro relazioni, con eccessiva disinvoltura, come si trattasse di una semplice questione aritmetica.
di Massimo Negrotti