Ritornare all’uomo e all’economia reale

mercoledì 4 settembre 2024


La visita ai Musei vaticani rappresenta un viaggio nella storia dell’uomo attraverso le sue opere d’arte e d’ingegno, che mostrano attraverso i capolavori esposti il senso e i valori estetici e culturali che hanno caratterizzato i periodi della storia. Le opere mostrano lo spirito di chi le ha fatte, la forza interiore e l’ispirazione che ha guidato il loro lavoro. La prima attenzione è rivolta alla bellezza estetica, e non sempre chi guarda ha l’impulso di domandarsi cosa voleva fare l’artista. Ci si ferma all’immagine esteriore e non si guarda al senso ed allo spirito che animava e spingeva l’artista nel suo lavoro.

Tra i capolavori esposti un posto di assoluta eccellenza, anche ai fini del presente lavoro, spetta a La scuola di Atene, che Raffaello dipinse a cominciare dal 1508 quando aveva 27 anni – morirà a 37 anni – chiamato da Papa Giulio II a Roma. Il periodo storico in cui Raffaello cresce è il Rinascimento italiano, e lui si confronta con i personaggi leggendari che hanno contribuito a costruire con lui la storia del mondo odierno. In quel tempo straordinario, forse irripetibile, artisti, poeti, letterati, scienziati, filosofi, matematici e fisici – sarà il secolo di Galileo – s’incontravano scambiandosi le loro idee, confrontandosi sull’essere dell’uomo, che era al centro del loro interesse. Si era formato un contesto culturale senza dogmi e prevenzioni reciproche, aperto ad una fertilizzazione di idee che fece fare un balzo avanti al pensiero creativo ed intuitivo nella nostra storia.

In quel periodo, Raffaello dipinse un simile contesto culturale che si era creato al tempo della grande Atene, anche il pensiero di quel tempo è uno dei fondamenti della nostra storia e cultura. Nel dipinto, il pittore, con un segno di armonia celeste rappresenta i personaggi ed il loro spirito, che esce dal dipinto e colpisce l’animo e la fantasia di chi lo guarda. I grandi di quel periodo ci sono tutti, raccolti attorno alle due figure centrali di Platone che alza il dito verso il cielo al mondo delle idee e dello spirito e di Aristotele, che lo abbassa verso terra indicando il mondo reale e l’esperienza scientifica. Il mondo delle idee e dello spirito non possono mai essere disgiunti dalla ricerca empirica della verità, tutto deve essere rivolto alla ricerca del vero e del bello, per favorire la realizzazione della felicità, che rimane il supremo fine del loro interesse.

Sia al tempo di Atene sia al tempo di Raffaello il mondo non era un paradiso, perché il dolore della vita, la difficoltà e la ruvidezza dei tempi erano durissimi, ma pure in quelle condizioni di difficoltà l’uomo riuscì a vivere momenti di eccelsa creazione. Oggi, dovremmo essere in un contesto asimmetrico a quello, perché le potenza della conoscenza tecnica, diventata un fine per il mondo moderno, avrebbe dovuto dare le risposte ai bisogni primari dell’uomo sollevandolo dalla loro schiavitù, ridurre le disuguaglianze ed in un mondo in parte liberato dai vincoli della fatica e del dolore della vita sotto l’aspetto fisico, contribuire a creare un contesto in cui il pensiero libero e creativo dell’uomo potesse ritornare ad essere il motore della sua vita, e portarlo a quella dimensione di felicità spirituale che ammiriamo in quelle splendide opere d’arte.

Era quello che John Maynard Keynes pensava si sarebbe avverato. In Prospettive economiche per i nostri nipoti (pagine 326-331), scriveva: “Per la prima volta nella sua vita l’uomo si troverà di fronte al suo vero costante problema: come impiegare il suo tempo”. L’uomo in quella nuova condizione di libertà, promossa dalla tecnica, avrebbe visto il denaro per quello che è, se considerato fine e non mezzo: “Una passione morbosa, un po’ ripugnante. Una di quelle propensioni che si consegnano allo specialista di malattie mentali”. Invece, non è stato così. È tutto il contrario, il sapere tecnico-strumentale è diventato sapere morale, verità incontrovertibile da non mettere in discussione, e detta le regole al nostro vivere, tant’è che siamo diventati strumento di esso.

La cultura tecnica che caratterizza i tempi moderni ha fallito nel fine a cui l’uomo l’aveva destinata, non per colpa delle cultura ma per l’improvvidenza dell’homo sapiens. Non siamo riusciti a creare ricchezza condivisa, abbiamo aumentato le diversità, le carestie e la povertà. Non abbiamo risolto i grandi problemi sanitari che affliggono la stragrande maggioranza delle persone di questo mondo. Il sapere tecnico ha staccato l’uomo dalla sua anima, lo ha reso asettico e impersonale, incapace di vere relazioni umane e di provare sentimenti profondi di amore, di gioia, di piacere che non siano legati alla sola soddisfazione di piaceri materiali e fugaci. Ne abbiamo imprigionato il pensiero, sgretolato il nucleo familiare e costretto giovani senza speranza a vagare per le strade. Abbiamo sbagliato tutti, perché le responsabilità sono sempre personali anche se a diversi livelli. Il tempo moderno va ripensato, se l’uomo non si vuole trovare ancora una volta davanti al caos.

Il primo passo che dobbiamo fare è domandarci se tutto questo dibattere sull’economia abbia il senso che gli stiamo dando, come causa della crisi del nostro tempo. È possibile che si continui a pensare che tutte le disgrazie di cui abbiamo fatto cenno sopra dipendano da un cattivo funzionamento delle regole dell’economia, e non dal collasso di un modello culturale che ha prodotto risultati opposti a quelli desiderati? La mancanza di una vita sociale e spirituale dell’uomo, la mancanza di un pensiero intuitivo e creativo, l’opacità di una vita che ha perso la capacità di domandarsi il suo senso di essere dipendono tutti da un cattivo funzionamento dell’economia? Continuiamo a cercare le cause dei nostri problemi nei posti sbagliati, perché i problemi non sono mai né tecnici né economici ma dipendono, sempre, dall’uomo e dalla sua natura.

È necessario mettere in discussione la nostra storia, a partire dal ruolo che abbiamo assegnato alle scienze economiche ed ai metodi di studi su cui da 30 anni si sono basati, di fatto riflessi nella ipotesi di base-protoipotesi, che le scienze economiche, le scelte e le decisioni che le ispirano siano “totalmente” indipendenti dalla natura dell’uomo. E che il suo essere anche emozionale non influenzi le sue scelte, perché a parità di condizioni e di informazioni i risultati saranno sempre uguali, avvallando un approccio razionale da non mettere in discussione. La cultura tecnico-razionale, applicata ad una scienza sociale come l’economia ha prodotto una non-scienza come già Friederich von Hayek aveva ammonito nel suo discorso di accettazione del premio Nobel nel 1974 – quinto anno della sua assegnazione – dal titolo La pretesa di sapere, in cui affermava: “Mi pare che questo fallimento degli economisti nel guidare positivamente la politica sia strettamente collegato alla loro tendenza ad imitare quanto più possibile le procedure delle scienze fisiche di successo, un tentativo che nel nostro campo può portare ad un errore fatale. Questo ci porta alla questione cruciale diversamente della posizione che esiste nelle scienze fisiche, nell’economia, scienza sociale, gli aspetti degli eventi da spiegare di cui possiamo ottenere dati quantitativi e misurabili sono necessariamente limitati e possono non includere quelli più importanti”.

I suoi ammonimenti non sono riusciti a fermare l’invasività di un modello culturale che potremmo definire “il miraggio della razionalità”, ed ora ci troviamo a fare i conti con il fallimento di quel modello che ha separato la natura dell’uomo dai risultati delle sua attività. Siamo andati contro 6mila anni della storia dell’uomo con una supponenza intransigente che solo la hybris della scienza tecnica poteva ispirare, e gli interessi che doveva legittimare. La cultura tecnica inseparabilmente congiunta all’economia, come viene studiata e da noi conosciuta, lascia spazio all’ancestrale avidità umana ed ad un’illimitata sete di guadagno, realizzabile solo con beni materiali, e crea il sistema di cui oggi ci sentiamo prigionieri e da cui nasce un rischio mortale di una società in cui l’uomo diventa oggettivizzato, perde il senso del proprio essere, della propria vita, della sua sfera sentimentale e della sua capacità creativa.

Sono proprio i capolavori artistici dell’uomo a mostrare quanto la sua natura più profonda sia radicata ad un senso di spiritualità creativa e non rivolta esclusivamente ad una ottusa razionalità fine a sé stessa. È tempo di ripensare al “paradigma tecnico-razionale”, che ha guidato gli studi di economia in modo assoluto, allontanando gli studi dall’immutabile natura dell’uomo che ne condiziona sempre le scelte, perché i fatti dimostrano la sua inidoneità a sostenere lo sviluppo delle società dell’uomo. Thomas Kuhn sosteneva la necessità di cambiare un paradigma che caratterizza gli studi di una comunità scientifica lungo un certo periodo storico, quando le anomalie interpretative dei fatti si intensificano, fino ad essere dannose allo sviluppo civile. Il cambiamento di paradigma assume il senso di una “rivoluzione scientifica” che è quella a cui siamo chiamati. Non è l’economia fondamento della società, ma è l’esatto contrario. E gli Stati Uniti, maggiori interpreti di quel paradigma ne sono l’espressione più evidente, vicini ad un collasso socioculturale senza precedenti nella loro storia.

Riportare l’economia ad essere uno strumento e non un fine, avviare un suo processo di umanizzazione, abbandonando l’assolutezza di un approccio razionale che va contro la storia. Ripensare al ruolo dell’uomo ed al senso della sua vita è la vera sfida che dobbiamo tutti insieme affrontare, per noi e per le future generazioni. Per evitare di trovarci ancora una volta davanti al caos.

(*) Professore emerito dell'Università Bocconi di Milano


di Fabrizio Pezzani (*)