Taccuino liberale #3

venerdì 9 agosto 2024


Una volta un giovanotto di soli 4 anni mi ammonì: “Non promettere mai quello che non sei certa di poter mantenere”. Ho promesso di mettere passione in quello che scrivo e per quello che scrivo e di usare il liberalismo come una lente per vedere le cose del mondo. Da soli si va veloce ma insieme si va lontano, recita l’adagio.

Ed io quindi ho scelto di farmi accompagnare in questo viaggio nel mio terzo appunto del Taccuino Liberale da un giovane giornalista e comunicatore, che ebbi modo di conoscere alla Scuola di liberalismo (eh sì, ci sono passati i migliori, e continuano a passarci) che sin da quando era poco più che maggiorenne si distingueva (e mi affascinava) già per la sua profonda conoscenza del liberalismo, accompagnata da una vastissima cultura storica, cinematografica, un passione e conoscenza musicale quasi rara, ed una intelligenza assolutamente brillante e liberale: Daniele Venanzi.

Mi sono trovata con lui una sera di qualche settimana fa, in un bel giardino romano, l’odore dei pini mediterranei sopra di noi, anguria nei nostri piatti, a disquisire del più e del meno, e da quella chiacchierata ne è nato questo articolo.

Una diffusa credenza popolare sostiene che il grande caldo dei mesi estivi predisponga maggiormente agli squilibri mentali. Certi che le temperature elevate rivestano sicuramente un ruolo importante nella perdita di lucidità di milioni di connazionali che ‒ soprattutto di questi tempi ‒ stentano a mantenere saldi i nervi, gradiremmo, con questa breve digressione balneare, stilare per chi ci legge una lista di altri fattori da far perdere la testa agli italiani, che esulano indubbiamente da quelli climatici.

In un dibattito pubblico dominato da voci che esortano lo Stato a intervenire ‒ più di quanto già non faccia ‒ nell’economia e nella vita privata dei cittadini per sopperire a dei fantomatici “fallimenti di mercato”, appare necessario, a nostro parere, passare invece in rassegna i più veri e fragorosi fallimenti: quelli di Stato, perpetrati proprio mentre quel tanto bistrattato mercato si ingegna per offrire agli individui alternative sempre più valide e variegate per supplire alla reboante inadeguatezza dello “Stato imprenditore”.

Ci perdoneranno i lettori non capitolini se, da romani, la nostra digressione sui suddetti fallimenti di Stato parta dai dolori della nostra città Eterna come i suoi cantieri. Di fatti, al momento sono ben oltre 1.500 i cantieri pubblici aperti contemporaneamente sul suolo capitolino ‒ primi imputati di un Giubileo privo di giubilo.

Tra strade chiuse, sensi di marcia invertiti, una Tangenziale con percorso “a spezzatino” e le (poche) linee della metropolitana che funzionano a singhiozzo e a orari ridotti, i nostri concittadini si aggrappano a quegli scampoli che restano di servizio di trasporto pubblico in corse metro che palesano l’inadeguatezza del nostro Leviatano nel gestire anche quelli che la vulgata comune definisce “monopoli naturali”, come la sicurezza, non garantita a cittadini e turisti in quell’enclave degli scippi in cui si è lasciato che si trasformasse il centro di Roma e delle altre metropoli italiane. Il titolo di capitale dei borseggi, infatti, spetta a Milano ‒ indice di come il dramma trascenda i confini capitolini.

Qualora i passeggeri volessero ridurre il rischio di tornare a casa deprivati degli affetti personali, si direbbe che potrebbero prendere dei mezzi di superficie: i mitologici autobus di linea o i lussuosi taxi ‒ anch’essi miraggio in centro come in periferia. Quel che differenzia i primi dai secondi è soltanto il prezzo, con Milano capolista tra le città più care in Europa per una corsa dal centro all’aeroporto, anche per colpa di costi di gestione dei taxi ben più alti della media che si registra nell’Eurozona, date le vessazioni fiscali che accomunano tassisti e automobilisti: prezzo del carburante, Rc auto, imposta di bollo e altre nefandezze.

Bus e taxi sono tuttavia accomunati dalla stessa piaga: il cittadino che se ne voglia servire, non ne trova a disposizione. Il Campidoglio, infatti, stima che a Roma servirebbero almeno 2.300 nuove licenze taxi per soddisfare la domanda, gonfiata da quello stesso fallimento del trasporto pubblico, al punto che le estenuanti code fuori alle stazioni ferroviarie e agli aeroporti nostrani ci sono valse un articolo divenuto virale del Wall Street Journal. Il mercato, dal canto suo, un’alternativa efficiente e risolutiva la fornirebbe già: quella di aprire a molte aziende ben liete di operare in regime di libera concorrenza, ma è argomento troppo spinoso per essere affrontato sotto l’ombrellone.

Il cittadino che riuscisse a sopravvivere al caldo, agli scippi e alle scadenze fiscali dovrebbe poi avere la fortuna di mantenersi sano come un pesce ‒ pena la disavventura garantita nei meandri della sanità pubblica, considerata, da qualche simpaticone, la migliore del mondo nel Paese con la più bella Costituzione del mondo. Una sanità così valida che i cittadini sono costretti a pagarla due volte: la prima quando versano le tasse, la seconda quando non vedono alternativa se non quella di rivolgersi al privato che, anche qui, tenta di sopperire al fallimento di Stato che si palesa in liste d’attesa bibliche. Di fatti, nel 2023 la spesa sanitaria privata in Italia ha superato i 43 miliardi di euro, ed è destinata a sforare quota 48 miliardi entro il 2028. Una spesa, quella privata, che incide per il 2,1 per cento sul Pil, mentre quella pubblica incide solo per il 6,8 per cento ‒ dato che relega l’Italia di 47,5 miliardi al di sotto della media dei Paesi Ocse per spesa sanitaria pro capite e al sedicesimo posto tra i Paesi dell’Ue. Un po’ poco, se si pensa che nel 2024 lo Stato italiano prevedere di spendere 886.419 milioni di euro, molti dei quali a debito. Sarà forse che non ha davvero a cuore la nostra salute?

Il tutto avviene in un Paese che, per rimanere in tema di dati Ocse, occupa il quinto posto nella classifica dei Paesi membri con il più elevato cuneo fiscale ‒ quasi 11 punti percentuali sopra la media. Un dato, questo, che vale all’Italia un posto nell’ultimo dei gironi danteschi degli “inferni fiscali”, secondo il brillante e sarcastico Tax Hells Index stilato ogni anno dalla 1841 Foundation.

Nel Paese in cui l’ombrellone e la spiaggina sono eretti a monumenti nazionali, ci sarebbe poi l’annosa questione delle concessioni balneari, che liquideremo con un flash: l’incapacità di gestire in modo efficiente persino il demanio pubblico non è forse la prova regina a sostegno della nostra tesi?

Prima di augurarvi serene Ferie Augusti e tornare a granita e anguria, vi lasciamo con una breve playlist Spotify, possibilmente da ascoltare in cuffia per non disturbare il vicino d’ombrellone con una volgare cassa bluetooth. Si tratta di brani che, in diverse forme, sono accomunati da un afflato di libertà dalle imposizioni di un’autorità soffocante.

All I want is to breathe, cantano d’altronde i Talking Heads in “Born Under Punches”, in cui David Byrne si dice oppresso da “the hand of a government man”, allegoria non velata di quella “mano pubblica” a cui preferiamo “la mano invisibile” di Smithiana memoria.

Dello stesso tenore Who’ll stop the rain dei Creedence, in cui le precipitazioni sono metafora di quella pioggia di denaro che è la spesa pubblica, arma con cui lo Stato, a Mosca così come a Washington, programmava “five year plans and new deals wrapped in golden chains”, carichi dunque di promesse elettorali vacue e buoni propositi disattesi per la natura stessa della pianificazione economica.

Abbiamo poi inserito riflessioni sul fisco cantate da eroi libertari come Johnny Cash, che riflette su quanto poco ci rimanga in tasca After taxes, ma anche da artisti insospettabili come i Beatles, che dipingono il Taxman, l’esattore, come un individuo losco e approfittatore, che per ogni sterlina prende 99 centesimi e al contribuente ne lascia solo uno, esortandolo anche a ringraziare il suo stesso vessatore per non essersi preso tutto!

C’è spazio anche per Bob Dylan con Hurricane, la tragica storia di un campione di boxe afroamericano divenuto capro espiatorio, vittima di una giustizia che diventa arbitrio quando si rende politicamente necessario individuare un colpevole di comodo.

Chiudiamo con i Chicago, che in I Don’t Want Your Money sostengono di non voler avere nulla a che fare con il fisco e con lo Zio Sam: un suggerimento di cui facciamo tesoro. Si tratta di brani che, a nostro parere, riflettono lo spirito di quello che avete letto, e che con l’anguria e la granita ci stanno benissimo!

Buon Ferragosto a chiunque ci leggerà.

(*) Leggi il Taccuino liberale #1, #2


di Elvira Cerritelli