venerdì 19 luglio 2024
Con l’introduzione nel nostro sistema della cosiddetta “giustizia riparativa”, è fruibile una via di soluzione del contrasto processuale, sussidiaria nel processo penale, che si fonda sull’incontro tra la vittima e il reo, attraverso l’ausilio di un soggetto terzo e imparziale denominato “mediatore”. Introdotta dalla cosiddetta Riforma Cartabia, sulla scorta delle indicazioni europee, possiamo rinvenire le norme di riferimento all’interno degli articoli dal 42 al 67 del Decreto legislativo 150/2022, nel tentativo di superare la frattura, provocata fra le parti, dal reato in discussione. Gli esiti riparativi, sono quelli tipici che si possono raggiungere nelle diverse fasi del processo penale e sono indicati nell’articolo 56 e in particolare dai numeri 1, 2, 3 in cui si legge:
1) Quando il programma si conclude con un esito riparativo, questo può essere simbolico o materiale.
2) L’esito simbolico può comprendere dichiarazioni o scuse formali, impegni comportamentali anche pubblici o rivolti alla comunità, accordi relativi alla frequentazione di persone o luoghi.
3) L’esito materiale può comprendere il risarcimento del danno, le restituzioni, l’adoperarsi per elidere o attenuare le conseguenze dannose o pericolose del reato o evitare che lo stesso sia portato a conseguenze ulteriori.
L’istituto è accessibile presso i Centri per la giustizia riparativa in ogni momento e per qualsivoglia reato. Alla fine del programma è prevista la trasmissione al giudice competente di una relazione. Nel caso di un esito positivo il giudice potrà procedere alla valutazione in ordine all’articolo 133 del Codice penale, all’applicazione di diminuenti e benefici, in ragione dell’esito positivo del programma riparativo svolto. La mediazione è stata pensata per entrambe le parti in causa: se si giudicasse in modo superficiale questo istituto si potrebbe pensare comunemente che sia solo la vittima che deve fare lo sforzo di perdonare, mentre l’unico compito del reo resterebbe ammettere le sue colpe per mostrare il suo profondo pentimento. In realtà, la mediazione in ambito penale è un percorso il cui fine è giungere al perdono da e di entrambe le parti: la vittima perdona il reo, il reo sentendosi perdonato perdona se stesso per ciò che ha fatto. Tutto ciò nella più ampia libertà delle persone coinvolte; il perdono è una scelta e un dono, per questo la mediazione è un istituto al quale si aderisce liberamente, senza alcuna imposizione da parte dello Stato. L’iter appena descritto cambia il cuore di ambe le parti, e provoca nella società un’inversione di rotta rendendo possibile, da un lato, la prosecuzione più serena della vita della vittima, che altrimenti rimarrebbe una strada interrotta dal dolore causato dalle vicende di reato, dall’altro permette al reo di non essere considerato e non considerarsi “massa dannata” e di tendere alla rieducazione e alla risocializzazione mediante gli strumenti del sistema giuridico. L’impatto dell’istituto della giustizia riparativa sul nostro sistema giudiziario sarà da valutare sui numeri circa gli accessi e gli esiti, e su esso inciderà certamente il contesto culturale, sociale e religioso in cui versa il Paese.
Scorrendo la storia dei giudizi penali si possono trovare numerosi esempi di scelte, operate da parti offese, che superano i certamente positivi percorsi riparativi proposti dal Decreto legislativo 150/2022 e ciò attraverso un esercizio virtuoso del perdono, virtù che discende direttamente dall’insegnamento di Gesù Cristo che, nel momento più buio, diceva: “Padre, perdonali, perché non sanno quello che fanno” e che ritroviamo nel sacramento della riconciliazione. Uno degli esempi particolarmente significativi occorsi nel secolo scorso è quello relativo al processo per l’omicidio della piccola Maria Goretti (Corinaldo, 16 ottobre 1890 – Nettuno, 6 luglio 1902), ora elevata agli onori degli altari, dilaniata con 14 colpi di punteruolo dopo un tentativo di violenza sessuale il 5 luglio 1902 e morta il giorno successivo all’ospedale di Nettuno. Ad ucciderla fu un giovane, Alessandro Serenelli (Paterno d’Ancona, 2 giugno 1882 – Macerata, 16 maggio 1970), figlio di una famiglia amica, che viveva nella stessa cascina agricola.
Maria Goretti fu canonizzata da Papa Pio XII in Piazza San Pietro il 24 giugno 1950 ed è venerata come martire della purezza. Sono molte le pubblicazioni, sulla piccola santa, che vale certamente la pena leggere, per indagare la profondità del suo cuore che, incrociando il suo aggressore mentre veniva portata all’ospedale morente, dà il via alla vittoria della vittima, la vittoria dell’amore vero, che trionfa quando, a domanda del suo parroco, che le chiedeva se volesse perdonare Alessandro come Gesù perdonò i suoi crocifissori, rispose: “Sì, lo perdono di cuore. E lo voglio con me in Paradiso”. Anche su Alessandro Serenelli ci sono libri e testimonianze. Pregevole e profondo il breve, infra citato scritto, del cardinale Angelo Comastri, titolato: Alessandro Serenelli. Un assassino vinto dalla sua vittima (pagine 65-85). Condannato il 15 ottobre 1902 a trent’anni di reclusione, in un processo che durò solo 5 giorni, Serenelli evitò l’ergastolo in quanto infra ventunenne (all’epoca questa era la maggiore età). Nel corso del processo fu informato della presenza in aula di Assunta Goretti, madre della fanciulla brutalmente assassinata, ed evitò di incontrare il suo sguardo.
Accadde che, durante l’interrogatorio avanti alla Corte, Assunta analfabeta e donna di limpida fede cristiana, alla domanda del presidente se intendesse costituirsi parte civile oppure perdonare Alessandro Serenelli, in un silenzio surreale del pubblico presente in aula rispose: “Sì, signore presidente, lo perdono”. Fra brusii, stupore, indignazione nel pubblico e frasi quali: “Perdono? Bisognerebbe ammazzarlo allo stesso modo!”. Assunta testimoniò la fede in Gesù Cristo col dire con voce ferma: “E se pure Gesù Cristo facesse così con noi?”. Fu come un fulmine, e nell’aula ritornò il silenzio. Dopo 27 anni di carcere Serenelli fu rilasciato il 21 marzo 1929, lavorò sino al 1937 nell’anconetano e nel 1937 venne accolto dai Padri cappuccini delle Marche nel Santuario della Madonna dell’amore, per poi trasferirsi nel Convento dei cappuccini di Ascoli Piceno, e infine, essere accolto nel Convento di Macerata, dove morì il 6 maggio 1970, medesimo giorno della morte di Luigi Goretti, padre di Maria. Da segnalare dapprima il sogno che fece nel 1906 nel carcere di Noto quando, disperato per il rimorso, si vide in sogno davanti ad un giardino: “In riquadro bianco tutto di fiori bianchi e gigli. Vedo scendere Marietta bellissima, biancovestita. Man mano che coglie i gigli, me li presenta e dice prendi e mi sorride come un angelo”.
Li accoglie a uno a uno e nelle sue braccia piene i gigli si trasformano in fiammelle, si sveglia improvvisamente e dice fra sé: “Ormai mi salvo anch’io. Perché son certo che Marietta prega per me. È venuta a trovarmi e a darmi il suo perdono”. Da quel giorno non sentì più orrore per la sua vita passata. Da ultimo, giova ricordare il suo testamento e i suoi pensieri, al tramonto della vita terrena. Negli anni passati presso il Convento di Ascoli Piceno, Alessandro cercava di riparare il male fatto, desiderando di fare il bene ad ogni costo. Si struggeva non riuscendo a dormire per il rimorso e solo quando gli veniva ricordato che si era confessato e aveva ricevuto il perdono da Marietta si rasserenava. Nel suo breve testamento, che andrebbe meditato per intero, si legge, fra l’altro: “Persone credenti e praticanti le avevo vicino a me, ma non ci badavo, accecato da una forza bruta che mi sospingeva per una strada cattiva. Consumai a vent’anni un delitto passionale, del quale oggi inorridisco al solo ricordo. Maria Goretti, ora santa, fu l’angelo buono che la Provvidenza aveva messo avanti ai miei passi. Ho impresse ancora nel mio cuore le sue parole di rimprovero e di perdono. Pregò per me, intercedette per me, suo uccisore”.
“Non lasciarti vincere dal male, ma vinci con il bene il male”. Questa è la strada da percorrere anche oggi attraverso lo strumento della giustizia riparativa, per arrivare al perdono, che muta e modifica il cuore dell’uomo e impatta positivamente sul corpo sociale. Pare dunque da valutare positivamente lo sforzo del legislatore nel riconoscere la necessità di perdono e della tensione a non assumere permanenti negativi giudizi in ordine a vicende, se pur dolorose, accadute nella vita. È certamente più facile e fruttifero spendere le proprie energie amando e perdonando, lasciando alle spalle ciò che abbiamo subito di ingiusto o tentando di riparare ed ottenere perdono per ciò che si è operato di ingiusto ai danni altrui, rispetto a vivere e spendere fatiche odiando e cercando vendetta.
(*) Tratto dal Centro studi Rosario Livatino
di Benedetto Tusa (*)