venerdì 5 luglio 2024
L’apertura all’iniziativa privata e al mercato migliorerebbe anche il pubblico e avrebbe ricadute benefiche sull’intera società
Gli ultimi dati del Ministero della Giustizia evidenziano che, a fronte di una capienza regolamentare complessiva, nei 189 istituti penitenziari italiani, di 51.347 posti, calcolati sulla base del criterio di 9 metri quadrati per singolo detenuto + 5 metri quadrati per gli altri, il numero di detenuti è pari a 60.637, di cui 2.615 donne e 18.985 stranieri. Tra essi, 9.348 sono in attesa del giudizio di primo grado, 6.346 i condannati non definitivi e 44.555 sono quelli con sentenza passata in giudicato. A essi vanno aggiunti i 319 gli internati in case lavoro, colonie agricole, altro e i 69 in situazione transitoria. Secondo Antigone, l’associazione “per i diritti e le garanzie nel sistema penale”, la fotografia del sistema penitenziario mostra nella realtà carceri fatiscenti, sovraffollamento e condizioni degradate di vita per detenuti e personale, e si riscontra, già al 31 dicembre 2023, una crescita estremamente rapida del sovraffollamento penitenziario con un tasso di sovraffollamento ufficiale del 117,2 per cento.
“A destare preoccupazione – precisa il sodalizio – è anche lo stato fatiscente di molti istituti. Il 31,4 per cento delle carceri visitate è stato costruito prima del 1950. La maggior parte di questi addirittura prima del 1900. Nel 10,5 per cento degli istituti visitati non tutte le celle erano riscaldate. Nel 60,5 per cento c’erano celle dove non era garantita l’acqua calda per tutto il giorno e in ogni periodo dell’anno. Nel 53,9 per cento degli istituti visitati c’erano celle senza doccia. Nel 34,2 per cento degli istituti visitati non ci sono spazi per lavorazioni. Nel 25 per cento non c’è una palestra, o non è funzionante. Nel 22,4 per cento non c’è un campo sportivo, o non è funzionante”. Una situazione davvero preoccupante, che diventa addirittura allarmante per l’elevato numero di suicidi all’interno delle mura dei penitenziari: solo nel 2024, sino a questo momento, si sono tolti la vita 49 detenuti e 5 agenti.
Sono state avanzate numerose proposte per cercare di risolvere tale grave problema, come il rilancio delle pene sostitutive delle pene detentive non superiori a quattro anni, l’introduzione di una liberazione anticipata speciale anche retroattiva, l’adozione di un provvedimento di clemenza collettiva e, più precisamente, di un indulto proprio condizionato, unitamente alla costruzione di nuovi istituti. Da ultimo, l’iniziativa del ministro della Giustizia Carlo Nordio con il decreto “svuota carceri”, un “intervento vasto e strutturale che affronta in modo organico un altro settore del sistema dell’esecuzione penale”, che dovrebbe alleggerire la pressione sulle carceri italiane, con misure quali il trasferimento in comunità determinati carcerati – come quelli con un residuo di pena basso, i tossicodipendenti e quelli condannati per reati specifici, per semplificare la liberazione anticipata e altre volte ad aumentare i contatti dei detenuti con l’esterno. Dette proposte, se hanno il merito di mantenere viva l’attenzione sulla situazione denunciata e sollecitare interventi risolutivi, non considerano tuttavia che la sfida più ardua che il sistema di giustizia penale è chiamato ad affrontare è il sovraffollamento delle carceri. I metodi tipici si sono dimostrati costosi e inefficaci e hanno condotto alla collocazione non ottimale delle già scarse risorse che affliggono tutti gli elementi della giustizia forniti dallo Stato: polizia, tribunali e carceri.
È pertanto necessario un nuovo approccio, che si muova nella scia di alcuni diversi orientamenti, pure emersi nel dibattito apertosi sin dalla metà degli anni Settanta, che individuano nell’iniziative dei privati la possibilità di ottenere modelli carcerari in grado di fornire le migliori condizioni al minor costo possibile. Potrebbe così essere percorsa la strada della privatizzazione delle carceri, da non intendere, tuttavia, come spesso avviene, come sinonimo di esternalizzazione a favore di un’azienda privata che produce beni o servizi che in precedenza erano prodotti esclusivamente del settore pubblico, cui sarebbe legata da una concessione amministrativa. L’esternalizzazione sotto siffatto profilo appare, al massimo, solo “una privatizzazione parziale o incompleta”, perché il processo decisionale rimane comunque nell’arena politica, sotto l’influenza di interessi particolari e politici piuttosto che di cittadini privati che agiscono imprenditorialmente come acquirenti individuali. La privatizzazione deve essere piuttosto considerata come trasferimento dallo Stato ai privati di proprietà, funzionamento e responsabilità delle carceri, che implica la gestione, a volte la costruzione, e ove dovesse occorrere, finanche il finanziamento di intere strutture carcerarie da parte di società penitenziarie di diritto privato.
Esse sarebbero invece legate contrattualmente alle amministrazione statali, dovrebbero rispondere a standard di qualità chiaramente definiti e potrebbero attuare programmi efficaci, rendere servizi adeguati e impiegare personale qualificato. Tali società opererebbero nel mercato e, sollecitate dalla concorrenza, potrebbero realizzare edifici con strutture adeguate, impiegare personale qualificato e creare così le migliori condizioni per produrre servizi di qualità più elevata e a costi inferiori rispetto a quelli che fornisce ora lo Stato. Non dipenderebbero neppure dai finanziamenti erariali, nel senso che i contribuenti non saranno costretti a pagare con le tasse per i servizi di un’organizzazione privata. I mezzi di finanziamento, infatti, verrebbero tratti dai proventi delle attività, che molte aziende coglierebbero l’opportunità di svolgere all’interno dei penitenziari impiegando il bacino di manodopera ivi presente, con i detenuti che sceglierebbero liberamente di lavorare e ai quali potrebbe persino essere consentita l’ulteriore scelta dell’istituto carcerario.
A differenza di quanto avviene oggi, le retribuzioni dei lavoratori corrisponderebbero a quelle dei non detenuti con qualifiche similari, potendo valere anche per le prestazioni rese nelle strutture detentive il principio economico secondo cui in un mercato senza ostacoli, qualsiasi azienda che offra salari inferiori a quelli di mercato verrebbe estromessa dalle aziende concorrenti. L’attività all’interno delle carceri risulterebbe di sicuro più produttiva in quanto le comunità carcerarie sarebbero sicure e pacifiche, incastonate in un contesto imprenditoriale, che sarebbe giudicato dal mercato. A loro volta, i detenuti lavorerebbero senza vincoli di tempo o interruzioni dovute agli spostamenti casa-lavoro e ritorno, incentivati dalle favorevoli condizioni di lavoro e dalla qualità che verrebbe loro assicurata, anche con il trattamento economico e previdenziale. Avrebbero persino l’opportunità di migliorare il loro bagaglio culturale e professionale attraverso l’istruzione e la formazione e, di conseguenza, di ottenere miglioramenti retributivi, in ciò agevolati dai datori di lavoro o dall’azienda carceraria perché aumenterebbero i profitti degli stessi.
Una volta scontata la pena, diventerebbe agevole il loro successivo reinserimento sociale e nel mondo del lavoro. In proposito, ha scritto Alexis de Tocqueville: “L’interesse dei detenuti esige che non siano mai inattivi, quello della società vuole che lavorino nel modo più utile. Il lavoro non è proficuo solo perché è contrario all’ozio; si vuole anche che lavorando il condannato apprenda una professione il cui esercizio gli permetterà di vivere all’uscita di prigione”. Nell’ambiente carcerario, un modello così delineato sarebbe altresì utile per prevenire ogni forma di violenza e i pericoli di fuga, e per ridurre drasticamente la pericolosità dei condannati e dei recidivi, in special modo di gravi reati. Ai detenuti sarebbero ovviamente assicurati i trattamenti sanitari necessari, ma non sarebbe consentito l’uso di droghe, che finirebbe per ridurre la produttività del lavoro e la redditività delle aziende. A loro carico, anziché dei contribuenti, graverebbero inoltre i costi della reclusione nonché gli indennizzi risarcitori a favore delle vittime dei reati.
In conclusione, il programma potrebbe sembrare ardito, ma non per questo irrealizzabile. Estrometterebbe, è vero, la politica e la burocrazia dal sistema carcerario, portando quindi all’abrogazione del monopolio statale coercitivo. Rimettendo però tutte le iniziative e le funzioni al mercato competitivo si risolverebbero molti problemi degli istituti penitenziari, in primo luogo quello del sovraffollamento, e si avrebbero notevoli benefiche ripercussioni sugli individui e sull’intera società. Perché non provare?
di Sandro Scoppa