martedì 2 luglio 2024
In pieno Sessantotto, l’ampia stagione così denominata tra la fine degli anni Sessanta e i primi anni Settanta, di contestazione di studenti e operai in molti ambiti, tra cui le università, un autorevole giurista, come Salvatore Pugliatti, che è stato anche accademico dei Lincei e rettore dell’ateneo di Messina ha scritto: “Se l’istituzione dovesse veramente espletare il pubblico servizio per il quale è costituita, e cioè se dovesse fornire istruzione e cultura, la riforma potrebbe orientarsi verso una distinzione delle due funzioni, adeguando ad essa diversi tipi di organizzazioni. Ma purtroppo nel nostro Paese esiste il tramite del titolo di studio che ha svisato totalmente l’istituto universitario. Il titolo dovrebbe essere un semplice attestato, il risultato documentale di una realtà, consistente appunto nella acquisizione di un certo grado di istruzione o di un certo livello di cultura. Esso, invece, nella gran maggioranza dei casi, è divenuto il fine per il quale si accede all’Università. E tale trasformazione si è verificata, a causa dell’orientamento della legislazione dello Stato italiano, che richiede la laurea per poter partecipare a qualsiasi modesto concorso presso la pubblica amministrazione e all’esame di Stato per l’esercizio di qualunque professione. L’Università è così divenuta… una fabbrica di titoli!
Una riforma seria, onesta e coraggiosa deve proporsi innanzi tutto di farla ridiventare fonte di istruzione e di cultura. E il primo passo di tale riforma deve consistere nell’abolizione del titolo di studio, e conseguentemente dei concorsi per titoli. Se si comincerà a dire: oggi, in Italia questo non si può fare (vedi slogan numero due), vuol dire che non vi sono propositi seri, ma intenzioni demagogiche. E Dio ce la mandi buona!”.
Si tratta di rilievi condivisibili che allora come ora dovrebbero indurre ad affrontare, e risolvere, la questione del valore legale dei titoli di studio, che può pure essere inserita in un più ampio dibattito sulle liberalizzazioni del mercato del lavoro e delle professioni, e su proposte di riforma per la modernizzazione del Paese.
In passato, la sua abrogazione è stata domandata da più parti, tra cui, solo per citarne alcuni, gli economisti Sergio Ricossa e Francesco Forte, da Marco Pannella e i radicali, ed aveva altresì formato oggetto di un’indagine conoscitiva promossa dalla Commissione Istruzione del Senato nonché della consultazione on line proposta dal governo tramite il sito del Ministero dell’Istruzione, università e ricerca.
A differenza di altri Paesi, in Italia (che peraltro prospetta una situazione normativa confusa) i titoli di studio non rappresentano dei semplici titoli accademici, che attestano il felice superamento di un corso di studi, bensì dei certificati pubblici, rilasciati “in nome della legge” e destinati a produrre determinati effetti giuridici, scolastici ed extrascolastici. I primi riguardano i passaggi tra ordini e gradi scolastici e rimangono, quindi, interni alla scuola; i secondi hanno invece principalmente natura costitutiva, dello status di dottore, nelle sue varie forme, e autorizzatoria in quanto consentono ai possessori la partecipazione ai concorsi pubblici o agli esami abilitativi per l’accesso alle professioni ordinate in albi e ordini. Per lungo tempo, e fino all’introduzione del suffragio universale, il possesso di un titolo di studio ha anche costituito una condizione necessaria per poter prendere parte alle elezioni e per essere eletti, mentre sino al 1981 veniva richiesto il requisito dell’alfabetismo nelle leggi elettorali amministrative, che andava dimostrato con un “regolare titolo di studio” o, in mancanza, con una “dichiarazione scritta e sottoscritta dall’interessato”.
La loro origine non può essere ricostruita con certezza anche se tradizionalmente la si fa risalire alla Costituzione Magistros studiorum, approvata da Giuliano l’apostata nel 362 d.c., e poi allo Studium generale medievale e all’attribuzione alle università, da parte dell’imperatore o del pontefice, della potestas doctorandi, con il rilascio della licentia ubique docendi.
Com’è noto, è stato Luigi Einaudi, ben oltre mezzo secolo fa, il primo a prendere posizione per l’abolizione del valore legale dei titoli di studio. Nelle sue Prediche inutili, infatti, dopo aver sottolineato che: “La fonte dell’idoneità scientifica non è affatto il sovrano o il popolo o il rettore o il preside o una qualsiasi specie di autorità pubblica, tutti chiamati in causa solo per poter apporre un bollo ufficiale al documento”, ha rilevato che “il valore del diploma esclusivamente morale e non legale” e pertanto “nullo o scarso o sufficiente o notabilissimo”, a seconda della reputazione che ogni singola istituzione si era procurata.
Dello stesso avviso anche Luigi Sturzo il quale, in un articolo intitolato Scuola e diplomi, pubblicato il 12 febbraio del 1950 su L’illustrazione italiana, ha sottolineato: “Ogni scuola, quale che sia l’ente che la mantenga, deve poter dare i suoi diplomi non in nome della Repubblica, ma in nome della propria autorità: sia la scoletta elementare di Pachino o di Tradate, sia l’università di Padova o di Bologna: il titolo vale la scuola. Se una tale scuola ha una fama riconosciuta, una tradizione rispettabile, una personalità nota nella provincia o nella nazione, o anche nell’ambito internazionale, il suo diploma sarà ricercato, se, invece, è una delle tante, il suo diploma sarà uno dei tanti”.
Le lezioni degli studiosi prima indicati sono oggi ancora attuali e possono sicuramente orientare una riforma sempre più importante, oltre che necessaria in una società priva di confini e globalizzata.
Innanzi tutto muovendo dalla constatazione che la detta abolizione non riguarda l’intera società né l’intera economia, ma solo lo Stato e le professioni “protette”, che ancora si appoggiano al valore legale dei titoli di studio e, pertanto, a un retaggio corporativo ormai superato. Essa, inoltre, produrrebbe una serie di ripercussioni a tutti i livelli della società, ma anche le condizioni per la competizione all’interno del sistema scolastico e di quello universitario determinando, di conseguenza, l’innalzamento del livello qualitativo degli insegnamenti e delle varie istituzioni. Quanto agli studenti, l’abolizione del valore legale dei titoli di studio espanderebbe la responsabilità individuale degli stessi e consentirebbe loro di definire parametri e aspettative nel progettare i percorsi di studio e di vita. Li indurrebbe, inoltre, a privilegiare la qualità dell’insegnamento anziché l’ateneo che prospetta un cammino più agevole e rapido per conseguire l’agognato “pezzo di carta”. L’abolizione metterebbe pure fine al fenomeno, in corso da anni, della proliferazione degli atenei e alla lievitazione di sedi e strutture accademiche senza alcun legame con la qualità del servizio erogato.
In ogni caso, quale che sia l’orientamento a riguardo, non è inutile evidenziare come il mercato ha già da tempo anticipato qualsiasi riforma in materia: le imprese non prestano attenzione al valore legale del titolo, ma piuttosto al percorso accademico/scientifico compiuto dal candidato (quale università si è frequentata, con quali professori e così via). Il che significa che il mercato privilegia nelle sue scelte la ricerca della qualità e prescinde dalla burocratica classificazione dei requisiti minimi di accesso.
Del resto, si è pure domandato Luigi Einaudi: “V’era bisogno di un bollo statale per accreditare i giovani usciti dalla bottega di Giotto o di Michelangelo?”.
di Sandro Scoppa