Martirio e beatificazione di Don Giuseppe Rossi, il parroco eroe di Castiglione Ossola

martedì 18 giugno 2024


Ucciso in odio alla fede cattolica dai nazifascisti. Don Giuseppe Rossi il 26 maggio è stato dichiarato beato dalla Chiesa cattolica. Il suo martirio – trucidato il 26 febbraio 1945 nei dintorni di Castiglione Ossola (provincia di Verbano-Cusio-Ossola) – è una delle più grandi testimonianze di come la lotta non violenta seppe tenere la schiena dritta molto più dell’armata partigiana. E, indirettamente, marca la differenza tra il martirio di testimonianza di un cristiano, rispetto a quello di altre religioni. A partire dall’Islam che, specie dall’11 settembre 2001 in poi, ha dato un’interpretazione omicida del concetto in questione. Don Giuseppe, misconosciuto ai più, fu un uomo che sentì il richiamo della fede sin da piccolo e che prese per mano tutta la sua comunità dopo che le truppe naziste avevano deciso una rappresaglia in seguito a un agguato dei partigiani che si era svolto quella stessa giornata in cui lui trovò la propria eroica morte, a soli 33 anni. Nel mese di maggio, in cui si è celebrato il centenario del martirio laico di Giacomo Matteotti, la figura di don Giuseppe, beatificato 4 giorni prima della ricorrenza dell’omicidio del grande oppositore del primo fascismo, è passata quasi inosservata.

Il suo diario (Tu ci rialzi con la tua mano), pubblicato per estratti in occasione della beatificazione dalla Diocesi di Novara, è pieno di perle filosofiche, esistenziali e ovviamente religiose. Come questa: “Amo l’attività, l’azione: le giornate di fatica sono per me le più felici. Direi che della elettricità passa per i miei nervi, eccitandoli al moto, al fare. La noia mi opprime, se inizio la giornata senza un preciso programma, mi agito allora come fossi alle strette di mani invisibili che mi fan soffrire. Mi sento l’anima triste, melanconica. Mi pare di essere un pellegrino che ha smarrita la strada e si volge a destra e a sinistra, interrogando sempre indeciso e di ritorno sui suoi passi. Preso da questa febbre di moto ho più volte, per la mia felicità e sollievo, promesso di non perdere un istante di tempo perché vorrei salire alla conquista di qualche cosa di certo, di duraturo, di utile nella scienza e nel pensiero, mentre guardo con terrore la fuga inarrestabile degli anni. Se forte e sentito è il bisogno di azione, debole, invece, e restia è la reazione della nostra carne: sovente la coscienza deve rimproverare all’anima d’aver mancato alle promesse”. Nella nota biografica pubblicata dalla Diocesi di Novara, in occasione della beatificazione di Don Giuseppe Rossi, si legge: “Nasce il 3 novembre 1912 a Varallo Pombia, studia nel Seminario diocesano e viene ordinato prete il 29 giugno 1937 a 25 anni. Nel 1938 il vescovo lo nomina parroco di Castiglione Ossola, in Valle Anzasca, ove spende tutto il suo ministero pastorale fino alla morte, in un tempo quasi solo segnato dal secondo conflitto mondiale. Come pastore organizza l’Azione cattolica, la San Vincenzo per i più poveri, aiuta con le poche risorse le missioni, si spende per i giovani partiti per il fronte, scrivendo loro sovente”.

Poi, “dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943, don Rossi non parteggia per nessuno, soffrendo con cuore di padre nel vedere i suoi figli combattersi in una lotta fratricida”. Infine: “Don Giuseppe Rossi viene ucciso barbaramente dai fascisti nella notte del 26 febbraio 1945, dopo che al mattino le milizie partigiane avevano attaccato la Brigata fascista Muti. Dopo otto giorni di silenzio tombale, uno dei militi fascisti, nel tormento del rimorso, si confida con una ragazza del paese”. Così viene trovato il corpo martoriato di botte nel vallone dei Colombetti sotto il paese, “sepolto in una fossa che era stato costretto a scavare con le proprie mani; il cranio spaccato dal calcio di un fucile, una pugnalata alla schiena e il colpo di grazia alla testa con una fucilata”. Gli avevano detto di scappare dopo l’attentato come fecero quasi tutti gli abitanti del paese, tranne i vecchi e le donne sole e i bambini. Ma lui credeva che il proprio dovere fosse di stare insieme alla popolazione per salvarla da un eccidio in stile Fosse Ardeatine. E ci riuscì pagando l’atto di eroismo con la vita e coronando così una vita vissuta in santità. Il vero martirio è quello cristiano disposto al sacrificio, non di certo quello degli shahid del terrorismo islamico che si fanno saltare in aria gridando “Allahu Akbar”.


di Dimitri Buffa