venerdì 14 giugno 2024
I giovani “hanno bisogno di una bussola, dove dirigere e canalizzare le energie”. Chiara Antonini, psicoterapeuta, è vicepresidente dell’Osservatorio nazionale adolescenza, da anni un punto di riferimento a livello nazionale sulle tematiche relative alle varie fasi della crescita e che si occupa di prevenzione, tutela e intervento a favore dei minori in ambito familiare, scolastico e sociale. Nel suo colloquio con l’Opinione, Chiara Antonini parla dei giovani, dell’utilizzo dei social network da parte degli adolescenti, delle challenge (le sfide pericolose poi immortalate dai video e che diventano virali sul web). Episodi, quest’ultimi, che ciclicamente riempiono le pagine della cronaca. Come il recente fatto avvenuto in una scuola del quartiere dell’Infernetto – Municipio X di Roma – dove due giovanissimi vengono sorpresi mentre uno stava strangolando l’altro. Il tutto avviene al cambio dell’ora. L’intervento di alcuni docenti, per fortuna, scongiura il peggio.
Dottoressa Antonini, un genitore come fa a capire cosa non va nel proprio figlio. Dobbiamo iniziare ad ascoltare i silenzi?
Più che il silenzio, è importante vivere lo sguardo del figlio. Perché se lo si conosce nella normalità, un cambiamento repentino può far scattare degli alert. Spesso i giovanissimi, alle domande del tipo come è andata a scuola? Come stai? rispondono con un bene. Certo, stiamo parlando di una fase particolare del neuro-sviluppo: la pre-adolescenza tra i 9-10 anni e le trasformazioni di questo processo evolutivo che sono più evidenti intorno ai 13 anni. Lo sviluppo cerebrale ha un ruolo basilare, se parliamo delle cosiddette challenge: in questo periodo della vita, i ragazzi non riescono a valutare i comportamenti pericolosi. Pur essendoci una percezione del rischio, non c’è una consapevolezza dello stesso. Va bene, quindi parlare e spiegare le eventuali conseguenze. Però bisogna integrare il tutto con un determinato percorso.
Perché i giovani partecipano alle challenge?
Il pre-adolescente vive sul presente, poi reagisce in maniera diversa. Le challenge sono virali, rimbalzano su Internet, nei video è palpabile un contesto di divertimento e goliardia. Partecipare a una challenge scarica quell’adrenalina che l’adolescente ricerca. Partecipando alle challenge, i ragazzi si sentono bene, perché fanno parte di un gruppo, vero o virtuale che sia. La viralità, i mi piace ricevuti, sono una gratificazione. Al contrario, se qualcosa va storto, con l’assenza di like si sperimenta la delusione. Che porta all’effetto opposto. Si vedano i selfie pubblicati sui social: se non ottengono il consenso della Rete, fanno stare male. L’approvazione è basilare in questa fase della crescita. Le challenge non sono un fenomeno nuovo: ciclicamente tornano virali. E in alcuni casi hanno conseguenze più o meno tragiche.
Qual è il vostro lavoro come Osservatorio?
Facciamo formazione nelle scuole, con docenti e genitori. Innanzitutto, per informare. Se l’adulto non sa, non può accorgersi di alcuni segnali. La consapevolezza è il primo step. Sicuramente, è fondamentale il monitoraggio sui social. Ma questi ultimi, in realtà, non sono il mezzo. Perché hanno enormi risvolti positivi, dove posso trovare contenuti interessanti. Serve così offrire degli spunti ai giovani, delle alternative, come per esempio lo sport, per scaricare l’adrenalina. È necessario un bilanciamento, tra quotidianità e digitale. Ci sono dei rischi, sì, che devono essere conosciuti, dai genitori e dagli insegnanti. La cosa principale è aiutare ragazzi con l’autoregolazione: fare delle sfide ok, ma in maniera positiva.
Nei ragazzi quali sono quei segnali da cogliere?
Come detto prima, lo sguardo è la prima cosa, perché non si può camuffare. Inoltre, qualche campanello d’allarme arriva dai cambiamenti improvvisi. Prendiamo un giovane che passa dal trascorrere molte ore al cellulare all’abbandono totale dello smartphone. Un genitore, sicuramente, se ne rallegra. Ma dietro a quel comportamento potrebbe nascondersi altro. Che so: il minore potrebbe essere preso di mira in qualche chat. Non solo: i segnali arrivano pure dai bisogni primari. Parlo della difficoltà a dormire, di un diverso approccio con l’alimentazione – se mangia poco o tanto – del rendimento scolastico, dell’abbassamento del tono umore, con un innalzamento dell’irascibilità. In questa fase della crescita, verbalizzare il disagio non è facile. Per questo sono dell’avviso che l’alleanza docente-genitore sia basilare.
Nulla è perso, quindi…
Ma certo che nulla è perso. Io e i miei colleghi adoriamo lavorare con questi ragazzi. È una fascia d’età fertile, con una importante parte emotiva. Spesso facciamo delle sfide, dei contest, su determinati temi. E i giovani producono lavori pazzeschi. I ragazzi hanno bisogno di una bussola, dove dirigere e canalizzare le energie. Hanno voglia di dire quello che pensano ed è importante per sviluppare la capacità critica. Ogni volta che organizziamo un evento di formazione, ci stupiamo sempre: anche per noi è un arricchimento continuo. Gli adolescenti possiedono una capacità di riflessione che, spesso, non fanno vedere ai propri genitori, dimostrando pure di provare dolore: la vita, dopotutto, è anche questa. Nei nostri incontri la costante è che c’è sempre grande interazione e partecipazione. I ragazzi sono curiosi, vogliono parlare, hanno sempre le mani alzate.
E i cellulari spenti…
Beh sì, con le mani alzate è più difficile maneggiare uno smartphone.
di Claudio Bellumori