martedì 5 marzo 2024
L’odio è il sentimento che domina il caos in Medio Oriente. Nei quasi 180 giorni dai massacri del 7 ottobre commessi da Hamas palestinesi e israeliani hanno continuato a fronteggiarsi con bombe, missili, droni: migliaia i morti. Una situazione disperata per l’intransigenza dei soldati israeliani e dei combattenti palestinesi. Dalle poche immagini televisive si è potuto constatare che i civili palestinesi sono costretti a vivere in condizioni terribili, disumane. L’emergenza principale è diventata a Gaza la fame. La popolazione disperata assalta i camion che trasportano cibo, gli Usa stanno organizzando il lancio di aiuti umanitari con paracadute da aerei da oltre mille metri per il timore di essere abbattuti dai missili. Atteggiamento diverso deciso dall’Egitto che ha rallentato l’invio dei soccorsi. La conseguenza è che Hamas, dopo aver attaccato Israele, tiene ancora in ostaggio non solo un centinaio di israeliani ma in pratica anche la propria popolazione dal momento che il leader terrorista Yahya Sinwar continua con i suoi fedelissimi a combattere. Anzi, c’è il rischio dell’allargamento del conflitto. In questa drammatica situazione manca la voce diretta dei giornalisti, i loro reportage, i loro video e le foto delle distruzioni. Il caos non sembra, per ora, avere una svolta. Le fonti da Gaza sono controllate da Hamas e Israele ha ristretto il diritto di movimento per tutti i media. Press out.
Venerdì primo marzo è stato organizzato a Roma un sit-in per sensibilizzare l’opinione pubblica sulle disagiate condizioni dei giornalisti che cercano di operare nella Striscia di Gaza. Molti giornalisti portavano una pettorina con la scritta in vernice rossa: “Basta sangue sui nostri giubbotti”. Se molte situazioni del conflitto non sono chiare lo si deve anche al fatto che sul campo non ci sono giornalisti indipendenti che possano raccontare quello che sta veramente accadendo nella zona. Dopo il 7 ottobre gli unici giornalisti che possono documentare gli avvenimenti sono palestinesi, dato che Israele ha deciso di non consentire l’ingresso di cronisti se non al proprio seguito, cioè sotto il controllo dell’Esercito. Una specie di embedded o meglio di censura. Attualmente i giornalisti lavorano in prevalenza da Gerusalemme. Il bilancio dei morti è allarmante. L’Agenzia Reuters che ha sede a Beirut ha raccontato la morte straziante, il 13 ottobre al confine con il Libano, del giornalista Issam Abdallah a causa di uno dei tanti bombardamenti della zona.
La mancanza di una strategia per il futuro dopo la guerra e l’aggravarsi dei problemi ha spinto la Federazione nazionale della stampa italiana con il presidente Vittorio Di Trapani, la segretaria Alessandra Costante, il leader della Stampa romana Stefano Ferrante, il presidente dell’Ordine del Lazio Guido D’Ubaldo a chiedere al relatore speciale delle Nazioni Unite di consentire l’ingresso della stampa internazionale a Gaza. L’Onu dovrebbe inoltre intensificare le misure di sicurezza e protezione degli inviati nelle aree di guerra garantendo al mondo dell’informazione le stesse tutele degli operatori umanitari e sanitari. Almeno 32-35 i giornalisti sono rimasti uccisi in Ucraina in due anni di guerra dall’invasione russa. Lo ha confermato il ministro della Cultura e della Politica dell’informazione ucraina Alexander Tkachenko su Telegram. Davanti al Media Centre di Leopoli è stata organizzata una mostra per ricordare i volti di chi ha perso la vita per raccontare il conflitto.
di Sergio Menicucci