giovedì 15 febbraio 2024
La notizia l’apprendo dal giornale online gNews, edito dal Ministero della Giustizia. L’articolista ci informa che un rappresentante del Nic (Nucleo investigativo centrale della Polizia penitenziaria) ha partecipato, per la prima volta, alla riunione del Gruppo interforze integrato ricerca latitanti. Leggo che la presenza della Polizia penitenziaria nel Gruppo interforze della Criminalpol, che segue quella ormai consolidata nel Casa (Comitato di analisi strategica antiterrorismo), è motivo di particolare orgoglio per tutta l’Amministrazione penitenziaria e attesta il ruolo svolto dal Nic, nel panorama degli organismi investigativi specializzati delle diverse forze di polizia dello Stato”. Francamente, la cosa non mi meraviglia, credevo che fosse cosa “scontata”: la ricerca dei latitanti per sua natura richiederebbe “naturalmente” il concorso di tutte le forze di polizia, in quanto, ciascuna, nell’ambito delle proprie specificità, può offrire spunti utili alla ricerca e per la cattura dei criminali, soprattutto i più pericolosi.
Non posso però evitare di pensare che, a mio modesto avviso, il “core business” del Corpo della Polizia penitenziaria, ancorché concorra nella ricerca dei latitanti, resti anzitutto quello di evitare che quanti siano sottoposti alla propria sorveglianza possano evadere. Scorro l’articolo e guardo anche la foto. Le immagini rappresentano un “dire” immediato, possono perfino fare a meno del bisogno di parole: si scorgono quattro persone con la pettorina dei Nic (Nucleo investigativo centrale), presumibilmente dovrebbe trattarsi di poliziotti penitenziari, non so se la foto sia stata scattata nel corso di un’operazione di servizio o si tratti di una esercitazione. Gli uomini impugnano l’arma, uno in particolare la sta puntando verso un bersaglio che ha di fronte, la pistola sembra essere una Beretta 92 FS calibro 9 millimetri. Parabellum del tipo già in dotazione al Corpo, tutti calzano il mefisto, un passamontagna di tessuto ignifugo, la cui funzione è anche quella di celare il viso dell’operatore, per ovvi motivi di sicurezza; la scena ritrae un luogo all’esterno, si vedono delle piante nel fondo.
Continuo a pensare al motivo per cui si sia preferita questa immagine ad altre, semmai disponibili (penso a quella che, ad esempio, compare sul sito del ministero dell’interno, dove attorno ad un tavolo vi sono i diversi rappresentanti delle forze dell’ordine che costituiscono il Gruppo interforze integrato ricerca latitanti). Quest’ultima evoca lo studio e l’esame di un caso, lo scambio di informazioni, l’osmosi delle intelligenze, la ricerca e l’analisi del dato. La prima, invece, preferita da Giustizia News, racconta dell’azione vera e propria, il cacciatore che è alla ricerca della preda, descrive una lotta che non si piega alle parole, che non si spende nel colloquio, che non ha lo scopo di profilare psicologicamente il soggetto che ha di fronte.
Da penitenziarista, ritorno con i miei ricordi alle tante carceri che conosco e che ho visitato, alle loro più disparate architetture, all’umanità variegata che esse contengono, talvolta proteggono, oppure dimenticano, al difficile compito che ogni giorno tutti gli operatori penitenziari (e tra questi dovrebbero allignare anche i poliziotti penitenziari ove rispondesse al loro desiderio professionale quello di dover lavorare nelle carceri), devono affrontare: sono dei servitori dello Stato che hanno messo in conto di dover operare al chiuso di quelle spesse mura, incrociando tutte le nazionalità del mondo, sapendo di essere “armati” quasi esclusivamente dalla forza della sola parola.
Penso ai poliziotti penitenziari che, indossando la sola uniforme, talvolta usurata, e con il viso scoperto, all’interno di locali semmai malmessi, dove il numero degli ospiti ristretti è esorbitante e dove, in ogni momento, c’è sempre qualche detenuto che ha qualcosa da chiedere, devono barcamenarsi di fronte alle istanze le più diverse. A volte esse assumono la forma della supplica alla quale non ci si può sottrarre, oppure sembrano delle preghiere, altre volte sono espresse con il tono della rivendicazione, perfino della minaccia: “Agente, quando mi chiama il medico, ho bisogno del dentista, non riesco più a mangiare? “Capo, dice all’educatore di chiamarmi? “Agente, devo fare un’istanza di misura alternativa alla pena, quando mi portate in matricola?”.
“Quando sarà il mio turno per lavorare?” “Perché non mi sono giunte le cose lasciate in carcere dai miei familiari?” “Voglio essere trasferito in un carcere vicino al mio paese, qui mia moglie ed i miei figli non riescono a venire, occorrono troppi soldi per il viaggio!”. “Lo sciacquone non funziona, ispettore, siamo costretti ad impiegare un secchio per pulire il cesso! L’acqua calda non c’è non riusciamo a lavarci, fa troppo freddo!”. “Voglio parlare immediatamente con il direttore, altrimenti mi taglio, ho fatto già cinque domande, devo dirgli delle cose importanti!”. “Il cibo qui fa schifo!” “Ci sono le cimici da letto nel mio materasso!”. Ripenso allora alla foto di Giustizia News, constato come, ai miei occhi, racconti una storia diversa, lontana, altra rispetto alla realtà delle carceri italiane.
Carceri in continua ebollizione, dove le proteste dei detenuti, ma anche quelle del personale, sono sempre sul punto di esplodere, dove i detenuti si suicidano e gli agenti anche, dove tutti urlano le loro difficoltà, dove sempre più numerose sembrano essere le metamorfosi attraverso le quali gli angeli si trasformano in Luciferi e dove tutti sono sempre più soli, per quanto l’affollamento dei detenuti sia sempre in crescita mentre gli agenti operanti all’interno degli istituti calano di numero. In quei luoghi altre sembrerebbero essere le aspettative, le speranze, le priorità e le storie da raccontare. Qualcuno, malignamente, guardando la foto, dirà; “ecco altri quattro poliziotti penitenziari che per cercare quei detenuti, che qui abbondano, sono evasi dalle carceri!”. Mah!
Eh sì, le foto raccontano e sarebbe importante che anche la premier Giorgia Meloni ed il ministro Carlo Nordio ne fossero consapevoli, interloquendo con i direttori d’istituto e degli Uffici dell’esecuzione penale esterna, ove altri dirigenti ministeriali finora non l’avessero fatto, ed anche con il personale penitenziario tutto, non concentrando, come altri politici sia attuali che espressione di precedenti governi, la loro attenzione esclusivamente sulla crème della polizia penitenziaria. D’altronde il ripetersi di gravi fatti di cronaca anche recente, da ultimo gli accadimenti verificatisi nel carcere di Reggio Emilia, che si aggiungono a quelli ancora sub iudice che la stampa riferisce per gli istituti di Torino, Ivrea, Cuneo e Biella, ma ancor prima di Santa Maria Capua Vetere, motiverebbe tale esigenza di comprendere meglio il mondo delle carceri, “liberandosi”, finalmente, da pericolosi preconcetti e luoghi comuni.
(*) Penitenziarista, coordinatore nazionale dei dirigenti penitenziari della Fsi-Usae (Federazione sindacati indipendenti dell’Unione sindacati autonomi europei)
di Enrico Sbriglia (*)