martedì 13 febbraio 2024
Franco Califano è arrestato poco dopo Enzo Tortora. È il cosiddetto “venerdì nero” della camorra (in realtà, si rivela il venerdì nero per la magistratura napoletana e non solo). Viene impigliato in quella fallimentare inchiesta della procura napoletana perché il suo “perno”, Enzo Tortora, non regge più alla prova dei fatti. Califano, che non ha mai nascosto la sua amicizia con Francis Turatello (suo figlio compare nella copertina di un suo 33 giri) e non ha mai nascosto di aver fatto uso di cocaina e che ha avuto una precedente esperienza carceraria (ma per fatti non legati alla delinquenza organizzata), serve da “supporto” per l’inchiesta traballante. Alla fine, ne esce pulito, ma anche lui viene arrestato e patisce una lunga carcerazione. In pochissimi, all’epoca (meno ancora che per Enzo Tortora) si battono per la sua innocenza. Anzi, la sua estraneità, avendo chiara la strumentalità “dell’operazione” in essere. Davvero molto pochi. Rileggere il carteggio con lui in carcere e poi ai domiciliari, a distanza di tanti anni, è ancora penoso. Distruggevano un uomo. Nulla e nessuno potrà mai risarcire per danni di questo tipo. Anche Franco Califano, come Enzo Tortora, ha vissuto un calvario giudiziario. Nessuno ha pagato per questo. Personalmente noi pochi abbiamo la coscienza a posto, abbiamo fatto la cosa giusta, quando andava fatta. Come cittadini si prova vergogna per questo (ennesimo) crimine.
In un articolo di qualche tempo fa, al riguardo, scrissi: “Stranamente – o forse no, sarebbe stato strano il contrario – quasi tutti i giornali (non più di un paio le eccezioni), ricordando Franco Califano, hanno fatto cenno alle disavventure giudiziarie del “Califfo” limitandole alla vicenda che portò in carcere Walter Chiari e Lelio Luttazzi, per uso e spaccio di droga. E anche su questo si potrebbe dire: che ogni volta che richiama in causa Luttazzi si dovrebbe aver cura di ricordare che “el can de Trieste” era assolutamente estraneo ai fatti contestati, solo tardivamente venne riconosciuto innocente, patì una lunga e ingiusta carcerazione, e da quell’esperienza ne uscì schiantato. Per quello che mi riguarda, comincio a interessarmi alla vicenda in seguito all’accorato appello al presidente della Repubblica lanciato da Gino Paoli. Califano mi contatta: “Sono frastornato e distrutto, perché un uomo non è un diamante, non ha il dovere di essere infrangibile… Ho in testa brutte cose… venitemi a salvare, sono innocente, e non è giusto che muoia, che mi spenga così”. Califano racconta che ad accusarlo erano due “pentiti”: Pasquale D’Amico e Gianni Melluso, “Cha-cha-cha”. Ma D’Amico poi le ritratta le sue accuse. Melluso, invece le reitera, racconta di aver consegnato droga a Califano in un paio di occasioni: nel sottoscala del “Club 84”, vicino a Via Veneto, a Roma; successivamente nell’abitazione del cantante a Corso Francia, sempre a Roma. Solo che nel “Club 84” il sottoscala non c’è; e Califano in vita sua non ha mai abitato a Corso Francia. Infine, Califano, in compagnia di camorristi, avrebbe effettuato un viaggio da Castellammare fino al casello di Napoli, a bordo di una Citroen o di una Maserati di sua proprietà; automobili che Califano non ha mai posseduto. Per accertarlo non ci voleva la scienza di Sherlock Holmes, o il genio di Hercule Poirot; bastava un po’ di buon senso. Di tutta evidenza assenti e limitiamoci a questo.
Califano racconta che le accuse nei suoi confronti sono solo quelle; che non si sono svolte indagini e accertamenti per verificare come stavano le cose. Sulle modalità investigative, può risultare illuminante un episodio in cui sono stato coinvolto. Anni fa sono stato convocato al Palazzo di Giustizia di Roma, per chiarire – così si chiedeva da Napoli – come e perché in un servizio per il Tg2, “in concorso con pubblici ufficiali da identificare”, avevo rivelato “atti d’indagine secretati consistenti in stralci della deposizione resa in una caserma dei carabinieri dal pentito Gianni Melluso sulla vicenda Tortora”. Ero effettivamente colpevole: avevo raccontato che Melluso aveva ritrattato tutte le sue accuse e assieme a Giovanni Panico e Pasquale Barra aveva concordato tutto il castello di menzogne e calunnie; un segreto di Pulcinella, tutto era già stato pubblicato dal settimanale Visto; il contenuto degli articoli anticipati e diffusi da Ansa, Agenzia Italia e AdnKronos. Dunque, sotto inchiesta per aver ripreso notizie (vere) pubblicate da un settimanale e da agenzie di stampa. Evidentemente dava fastidio la diffusione in tivù. Queste le indagini e il modo di condurle. Finite come sono finite. Un episodio certo non secondario nella non facile vita di Franco Califano. Che Rai 1 ha tranquillamente omesso di raccontare nel film tivù trasmesso domenica 11 febbraio.
di Valter Vecellio