martedì 30 gennaio 2024
Chissà quante volte, verso le sei del mattino, mentre era inseguito dai pensieri, accucciato sotto la coperta di lana cotta dell’amministrazione penitenziaria, ruvida, così come lo sono le lenzuola e la federa che corredano il letto, meglio dire la branda ancorata alla parete, di acciaio, verniciata di un arancione spento, dove al posto della rete o delle doghe di legno, c’è una lamiera d’acciaio bucherellata, con sopra il materasso di una mescola antincendio spugnosa, avrà sentito il clangore della pesante chiave che ruota all’interno della serratura del blindato della sua cella.
Entravano almeno in due, si trattava di agenti, uno con in mano una sorta di cilindro di metallo pieno, di regola di acciaio. No! Nessuna preoccupazione, non stavano lì per aggredirlo, ma per fare la “battitura dei ferri”, quel rito quotidiano del sorvegliante che, con un movimento armonico, percuote tutte le sbarre delle finestre al fine di rilevarne, dal suono, la loro integrità. Nulla di straordinario, è solo uno dei mille rumori del carcere; quasi musicale per il poliziotto penitenziario esperto.
Lo fa ogni giorno, tutti i giorni, nessuno escluso, almeno per due volte, mattino e sera. In fondo, basta abituarcisi e immaginare che sia una sorta di cucù, come quello degli orologi svizzeri da parete, e la cosa passa inosservata. Certo, però, il nostro detenuto non può fare a meno di pensare che solo qualche ora prima, verso le tre o le quattro del mattino, anche se non ci fa ormai più caso, erano entrati ancora una volta gli agenti per fare la cosiddetta “conta dei detenuti”, accendendo i neon della stanza perché, si sa, le luci notturne non sempre funzionano e poi è meglio vedere bene, sono ergastolani. Anche questa è un’operazione che va compiuta più volte al giorno: serve per accertarsi sul numero degli ospiti che sono registrati come presenti, non voglia il Cielo che qualcuno abbia cercato di evadere.
Ma ci sono le telecamere, gli allarmi, gli impianti anti-scavalcamento, diamine! È vero, ma tante volte potrebbero non funzionare e mancano semmai i soldi per ripararle e poi, francamente, gli occhi umani sono sempre un’altra cosa. Ma come potrebbe il nostro evadere, malconcio com’è, e poi dove potrebbe andare, con quali mezzi, soldi? Semmai rischiando di mettere nei guai i propri familiari, mah! Il nostro amico sardo, nel frattempo, ritorna a provare a dormire: domani lo aspetta un’altra giornata del nulla che si aggiungerà ai trenta anni che ha già consumato. Sono le sette, comincia ad albeggiare, sente il rumore stridulo delle rotelle del carrello della prima colazione: colazione? Nella ciotola di plastica in dotazione, che porgerà al ristretto “porta-vitto”, verrà versato un mestolo abbondante di caffellatte, con tanto poco caffè e tanto poco latte, estremamente liquido, ma digeribile, comunque una bevanda calda o alla peggio tiepida. Insieme a una ciriola da mangiare subito, prima che si solidifichi in un attimo. Che strano pane quello del carcere, tende a trasformarsi in poco tempo in pietra, come la pena.
Il detenuto allora pensa al pane di casa, quello sì che è buono. Un pane che durava anche più giorni e che, insieme al pecorino fresco, ridotto a listelli con la lama affilata della sua pattada, gustava mentre vegliava sulle pecore che, pacifiche, brucavano l’erba delle colline, mentre le possenti querce da sughero regalavano la loro confortante ombra. È l’ora, però, di alzarsi e fare le abluzioni, si sente dopotutto fortunato, è in cella soltanto con un altro ristretto fisicamente più grosso di lui, anche il compagno sta dentro per omicidio, un omicidio che però ha confessato. Non sa se averne paura o meno, perché anche il nostro è recluso per omicidio, sono pari, sì, ma lui il reato non lo ha commesso, si è sempre proclamato innocente ma non è stato creduto: quante volte gli hanno chiesto di pentirsi del male fatto, di “cambiare vita”, di mostrare emenda, senso di responsabilità. In due i nostri prigionieri vivono meglio, anche se parlano poco tra loro, sono in fondo caratteri diversi, ognuno con i propri pensieri.
Però hanno la fortuna di avere un bagno a disposizione; è un locale piccolo dove volendo, anche seduti sulla tazza, potrebbero cucinare o quantomeno girare il cucchiaio nel sugo che si accingono a preparare; lavarsi in due, ovviamente uno per volta, è più facile, purché si evitino gli schizzi di acqua sporca e saponata lì dove ci sono le pentoline, la caffettiera, i bicchieri di plastica e tutto il misero vasellame che costituisce la loro dotazione. La doccia non c’è, neanche il bidet, bah! Dopotutto quando faceva il pastore non è che fosse così diverso, però che bello era, libero nei pascoli, poter guardare le stelle e sentire il vento sfiorare il viso, un vento che portava il profumo della macchia mediterranea e del mare.
Nelle altre celle, invece, la vita è più difficile. Si è in quattro, sei, perfino otto, eh! Lavarsi diventa complicato, i minuti sono contati e tutti devono pisciare e cacare, e poi è lì che si deve cucinare e conservare quegli alimenti comperati, se si hanno i soldi sul proprio conto corrente, o quelli che vengono distribuiti dall’amministrazione penitenziaria o portati dai familiari. Avesse mai acquistato uno yogurt che non fosse prossimo alla scadenza, pensa il nostro, pur pagandolo come appena prodotto! Ma fa niente, dopotutto tutto ciò che non strozza ingrassa, ma almeno la carne un po’ più tenera non guasterebbe. In carcere oramai ha perso quasi tutti i denti, che volete? Mica c’è a disposizione dell’assassino o presunto tale il dentista e le protesi non sono gratis, dopotutto è un delinquente, un detenuto, suvvia! Non guarda più le sfere dell’orologio, a meno che non sia la giornata dei colloqui. Che bella la giornata delle visite! Ma anche che brutta, pensa, ove dovessero portargli delle tristi notizie: i genitori sono anziani e non lo vedranno più libero. Chissà com’è la ragazza del paese che corteggiava? Non riesce più a ricordarne la forma del viso, gli occhi sì, però.
Mi fermo, le mie sono fantasie che rievocano i tanti racconti che ho ascoltato dai detenuti durante la mia vita professionale, anonime storie di prigionia. Forse sono state pure quelle di Beniamino Zuncheddu e dei suoi trentatré anni di carcere, prima che, a seguito del processo di revisione della condanna per la quale era stato condannato all’ergastolo, venisse proclamato innocente per non avere commesso il duplice omicidio. Potrebbero essere stati solo alcuni tra i più modesti momenti della sua prigionia, quelli “semplici” e innocui. Ma rituffandoci nella realtà: pensate che davvero ci sarà un modo per compensare quello che ha sofferto, patito, subito questo nostro cittadino? Quello che è accaduto a lui poteva capitare a tanti; poteva succedere anche a tutti coloro che, erroneamente confidando nelle leggi e nel rispetto di ogni procedura, scoprissero, invece, che vi è un mondo di una perfida Minerva, popolato da malvagi custodi, nel quale si preferisce l’abbrevio delle indagini, sostenute da teoremi e sotto-teoremi, alla defatigante e paziente raccolta di ogni elemento di prova: in quella dimensione priva di umanità, ogni mezzo è buono pur di dare in pasto a una opinione pubblica facilmente influenzabile, una giustizia da finger food, da consumare subito per poi leccarsi le dita, ma con quelle dita si inferiscono profonde ferite che deturpano la società.
(*) Penitenziarista, coordinatore nazionale dei dirigenti penitenziari della Fsi-Usae (Federazione sindacati indipendenti dell’Unione sindacati autonomi europei)
di Enrico Sbriglia (*)