giovedì 25 gennaio 2024
Una riflessione per Ernesto Galli della Loggia
Il professor Ernesto Galli della Loggia sul Corriere della Sera nel suo intervento sulla complessa questione dell’inclusione degli alunni con disabilità e con bisogni educativi speciali, con troppa facilità, come dopo in un successivo articolo lui stesso ha ammesso, ha affermato che “la scuola italiana è il regno della menzogna. A cominciare ad esempio da quella che si cela dietro il mito dell’inclusione. In ossequio al quale nelle aule italiane – caso unico al mondo – convivono regolarmente, accanto ad allievi cosiddetti normali, ragazzi disabili anche gravi con il loro insegnante personale di sostegno (perlopiù a digiuno di ogni nozione circa la loro disabilità), poi ragazzi con i Bes (Bisogni educativi speciali: dislessici, disgrafici, oggi cresciuti a vista d’occhio anche per insistenza delle famiglie) e dunque probabili titolari di un Pdp, Piano didattico personalizzato, e infine, sempre più numerosi, ragazzi stranieri incapaci di spiccicare una parola d’italiano. Il risultato lo conosciamo”. Nonostante siamo certi che il suo intento non fosse, come lui stesso scrive, quello di essere “fautore dell’esclusione, dando quasi a vedere di augurarmi classi composte unicamente di bei ragazzi “sani”, magari anche biondi e con gli occhi azzurri”, però avrebbe dovuto fare almeno uno studio più dettagliato sulla scuola italiana. E per questo appare utile al dibattito porre alcune controsservazioni alle sue.
Scrive Galli della Loggia che, “nella maggioranza dei casi, l’insegnante di sostegno non ha alcuna preparazione specifica, se non alcune vaghe nozioni d’ordine generalissimo apprese in un corso annuale. Che tipo di sostegno potrà quindi assicurare se non quello genericissimo di una semplice presenza-assistenza?”. Intanto l’insegnante di sostegno non è un “assistente” ma è un docente a pieno titolo della classe. Poi per diventare tale deve superare un complesso percorso a ostacoli, fatto di una rigida selezione iniziale per accedere a un corso di livello universitario a numero chiuso, che presuppone una laurea e un’adeguata preparazione scientifica sul tema. Poi è costretto a seguire con obbligo di firma una serie di lezioni con esami di livello accademico e contemporaneamente fare un tirocinio presso le istituzioni scolastiche abilitate di circa 175 ore e in ultimo sostenere, con tesi sulla disabilità, un esame finale per conseguire il tanto agognato titolo, che tra parentesi ha anche un costo di iscrizione non indifferente.
Le “vaghe nozioni d’ordine generalissimo” di cui parla il professore, gli specializzandi li apprendono nelle università italiane, probabilmente anche nella sua. Allora delle due una: o il sistema universitario non è adeguato a formare queste figure e allora dovrebbe dirlo chiaramente dall’alto della sua cattedra accademica indicando chi possa farlo meglio o lo è e quindi ha dato un giudizio troppo tranchant sui docenti di sostegno. Fermo restando che in ogni caso la differenza la fa l’individuo e come esistono docenti universitari bravi ci sono anche quelli che lo sono meno così vale anche i docenti di cui ha scritto. Pessima idea generalizzare e mettere tutti nello stesso calderone. Nessuno nega che ci siano delle criticità e delle condizioni perfettibili, come in tutte le attività umane, ma questo non implica che i passi fatti in avanti sul tema dell’inclusione siano trascurabili. Forse l’editorialista del Corriere ha dimenticato che le classi differenziali furono un’innovazione per il loro tempo, l’anno 1900, poi superate nel 1977 grazie all’impegno della senatrice Franca Falcucci che, come relatrice della Commissione sull’handicap, scrisse sulla scuola che “proprio perché deve rapportare l’azione educativa alle potenzialità di ogni allievo, appare la struttura più appropriata per far superare le condizioni di emarginazione in cui altrimenti sarebbero condannati i bambini handicappati”.
E quella di inserire gli alunni con problematicità nelle classi comuni fu e continua ad essere una grande conquista di civiltà. Sulla questione di cosa accade negli altri Paesi europei è utile qualche precisazione. L’Ue si è più volte espressa sulla necessità di promuovere un’istruzione inclusiva per tutti e la raccomandazione del Consiglio del 22 maggio 2018 e quella del 29 novembre 2021 sono chiare nel sostenere la politica di partecipazione di tutte le persone con diverse abilità alla formazione scolastica. Se poi andiamo a guardare i documenti del 2016-2017 dell’Agenzia europea per i bisogni educativi speciali e l’istruzione inclusiva e le raccomandazioni dell’Onu in merito all’applicazione della Convenzione sui diritti delle persone con disabilità, possiamo fare un’analisi più puntuale sui vari paesi e le loro strategie educative.
Infatti, individuiamo tre diversi sistemi di istruzione per gli alunni con disabilità. Uno con una sola possibilità (tutti insieme nelle classi); uno a due (alunni senza disabilità nelle classi comuni e alunni con disabilità in quelle speciali); un altro in cui la famiglia può scegliere tra classi speciali e comuni.
Grecia, Spagna, Portogallo, Islanda e Italia hanno un sistema assolutamente inclusivo, in cui gli alunni in tutte le scuole di ogni ordine e grado vivono e studiano insieme. In Islanda addirittura il Braille e la Lingua dei segni sono lingue ufficiali come previsto dalla Costituzione. In Francia gli alunni con disabilità sono integrati nelle classi comuni, anche se la famiglia può chiedere l’inserimento in una classe speciale dove seguirà un programma differenziato a patto che alcune delle ore di insegnamento siano condivise con gli alunni delle classi comuni. In Austria, Belgio, Danimarca, Finlandia, Lussemburgo, Norvegia, Paesi Bassi, Svezia, nonostante ci sia ancora la possibilità di inserire gli alunni nelle classi differenziali di fatto la loro presenza è in calo. Nel Regno Unito il 50 per cento degli alunni con disabilità frequenta le classi comuni. In Svizzera, precisamente nel Canton Ticino l’inclusione è quasi totale, mentre negli altri essa è decisa da una commissione composta dai genitori dell’alunno, dal dirigente scolastico, dal neuropsichiatra infantile e da uno psicologo.
Quello che salta agli occhi è il caso della Germania in cui ci sono classi speciali (unico caso in Europa) anche per gli alunni con Dsa (disturbi specifici di apprendimento). Persino in Russia e in tanti paesi del blocco ex sovietico dopo la fine del comunismo i genitori degli alunni possono decidere dove mandare i propri figli. E l’Italia è stata all’avanguardia nel praticare una politica di integrazione già dagli anni Settanta. Sul tema poi di quei ragazzi provenienti da altri Paesi che, come scrive Galli della Loggia, non “spiccicano” una parola di italiano, è discutibile che sarebbe utile prevedere delle sezioni staccate solo per loro, dove si sentirebbero degli esclusi a prescindere. La scuola italiana non è il “regno della menzogna” e nemmeno quello della “verità”, ma quello del dubbio. Un luogo di crescita e confronto, in cui le conoscenze diventano competenze per tutti gli allievi. La piena inclusione è un traguardo difficile da tagliare, e proprio per questo bisogna lottare per raggiungerlo in nome della civiltà, della libertà e dell’umanità.
di Antonino Sala