venerdì 19 gennaio 2024
È iniziato nell’aula della Corte d’Assise del Tribunale di Milano uno dei processi che lasciano sgomenti rispetto all’impietosa galleria delle violenze efferate contro le donne. Alessandro Impagnatiello si è presentato “ristabilito”, cioè diverso dal giovane col cappuccio che fingeva di non sapere dove fosse Giulia Tramontano, la sua fidanzata incinta del piccolo Thiago, con cui aveva una relazione burrascosa. È diverso poi dal “mostro” che ha confessato quell’incommentabile delitto, spietato, freddo e assassino. Soprattutto gelido, nella sua mise di barman dell’Armani Caffè Bamboo Bar di viale Manzoni a Milano, il quartiere di Re Giorgio nel quadrilatero della moda. Reo confesso, Impagnatiello, arrestato, ha subito ceduto di fronte all’incalzare dell’inchiesta giudiziaria e ha ammesso di essere stato “lui” ad uccidere Giulia, facendone ritrovare il corpo.
È probabile che “la confessione”, incalzata dai magistrati, frantumi quel copione potremmo dire “in voga” sul palcoscenico mediatico. Copione il quale, ancorché espressione della disperazione dei famigliari delle vittime e del livore della “piazza elettronica”, suggella il ruolo di maschio femminicida come eroe negativo del tempo che viviamo. Dall’atteggiamento assunto anche in aula dall’imputato si è notato un profilo, cioè un essere, completamente diverso.
Alessandro Impagnatiello, 30 anni, con accuse che vanno dall’omicidio aggravato da premeditazione, crudeltà, futili motivi, vincolo affettivo, occultamento di cadavere e procurata interruzione di gravidanza, è entrato in Tribunale a testa bassa schivando la ressa di fotografi e telecamere senza rispondere alle domande dei cronisti. In aula è rimasto in silenzio, con lo sguardo fisso sui piedi e le gambe nervose. Non ha letto un testo, non aveva mandato una lettera ai famigliari di Giulia per implorare il loro “perdono”. Alessandro, con la voce quasi rotta e parole fragili, si è detto “pentito” dell’abominio commesso e ha spiegato qualcosa di “allucinante”: “Mi ha avvolto qualcosa di oscuro”.
È quanto una cronista ha riferito all’avvocato della difesa, Giulia Gerardini, la quale al termine dell’udienza si è presentata ai media, chiedendo “cosa vuol dire?”. “Che non si sa spiegare che cosa sia accaduto – ha risposto la donna ai microfoni – e quindi è sgomento rispetto a quello che è successo, si sente molto male. Era la prima occasione di chiedere scusa alla famiglia e si è sentito di chiedere scusa sentitamente”. Pentimento sincero, garantisce la difesa. Che tuttavia non ha voluto rivelare “le sue carte”, cioè se di fronte al rischio dell’immane condanna chiederanno “la perizia psichiatrica”.
Pentimento sincero o no, che può dire la gente? Strategia? Il recital del serial killer? I tanti ruoli del mostro assassino manipolatore? Certo è che la famiglia di Giulia si è alzata dall’aula e sono usciti. Prima la sorella Chiara, seguita dal padre. La madre e il fratello Mario devono aver pensato che qualcuno dovesse restare e di fatti sono rimasti. “Ascoltare le dichiarazioni di Impagnatiello era troppo pesante per loro”, ha spiegato il legale, mentre il “reo confesso” recitava la sua parte: “È stato un gesto di disumanità, inspiegabile, che mi ha lasciato sconvolto e perso. Non vivo più. Quel giorno me ne sono andato anche io perché, anche se sono qui, non vuol dire che sono vivo. In un giorno ho distrutto la vita di Giulia e del figlio che aspettavamo. Mi scuso, non posso chiedere perdono, ma mi scuso con tutte le persone. Non chiedo che queste scuse vengano accettate perché sento ogni giorno cosa vuol dire perdere un figlio. So solo che possono essere ascoltate e se questa è l’occasione per farlo, allora porgo le scuse alla famiglia in primis. Mi metto a nudo. L’unica cosa che io oggi faccio la sera è sperare di non svegliarmi più la mattina. Chiederò per sempre scusa a queste persone finché sarò qui”.
Poi ha pianto. O comunque, da quel volto che sembrava imperturbabile, di ghiaccio, come il ghiaccio dei suoi cocktail, qualcosa si è sciolto: le lacrime. Sul Corriere della Sera stamane Massimo Gramellini nel suo “Caffè” quotidiano le definisce “lacrime di coccodrillo” spiegando che secondo lui manifestano quello che prova il coccodrillo: “Non piange perché ha divorato la preda, ma perché fa fatica a digerirla”, ha scritto. Sottolineavo il buon lavoro che, è dimostrato, ha svolto la magistratura, inducendo Alessandro a confessare. E il ruolo dei suoi avvocati nel profilare “il pentimento” non solo per le telecamere o la per clemenza dell’aula, ma per l’esito del processo. Tuttavia, non possiamo non notare come, in ogni caso, lo spietato assassino sia rientrato nell’antro dell’umano e riaffiori la coscienza.
Di può non mi sento di dire. I criminologi e gli esperti, anche tutti i commentatori mediatici, sicuramente si sbizzarriranno nel trovare definizioni e categorie, prima fra tutte quella del “maschio sessista, femminicida, il prodotto patriarcale, il classico uomo che anche da fidanzato con la compagna in attesa di un bambino è quel mostro che si è rivelato”. Dietro non c’è la casistica più elevata dei casi di femminicidio e cioè quelli che si consumano “perché la donna rivendicava la sua libertà o il diritto di scelta o un’altra vita o le denunce per maltrattamenti” e tutto il resto. Dalle cronache la vicenda si inquadra in una convulsa relazione tra fidanzati conviventi di una coppia dei nostri giorni. Con Giulia che sapeva dei tradimenti di Alessandro, anche la sorella e la madre ne erano informate. Anche la mamma del “mostro” sapeva. Perfino l’amante è entrata in scena offrendo riparo a Giulia in serio pericolo. Ma lei no, non ha accettato: l’ultimo litigio, l’ultimo chiarimento, “vieni a casa mascalzone”, il fatale scontro-incontro. Certo, stava per nascere Thiago: il corredino, i preparativi, i sogni della nonna in attesa, i preparativi per il battesimo già fissato, i dubbi della sorella Chiara a cui Giulia aveva confidato la sua rabbia e le indecisioni. “Non so cosa sia accaduto, cosa mi ha avvolto”. Questo dovranno indagare gli inquirenti e dovranno valutare i giudici. Il presidente è Antonella Bertoja, già giudice della Corte d’Assise di Bergamo nel caso di Yara Gambirasio.
di Donatella Papi