venerdì 22 dicembre 2023
È uscito come ogni anno il rapporto redatto dal Cato Institute e dal Fraser Institute sulla condizione della libertà nel mondo, The Human Freedom Index (Hfi), che tiene conto di 86 indicatori distinti in varie aree come rule of law, sicurezza, libertà di movimento, di religione, di associazione, di informazione, di relationships, dimensioni del Governo, ordinamento giuridico, diritto di proprietà, stabilità monetaria, possibilità di commercio internazionale, regulation. L’Hfi è l’indice di libertà più completo finora elaborato per un insieme significativo di Paesi che rappresentano il 98,8 per cento della popolazione mondiale. Si legge nel rapporto che “la libertà umana si è gravemente deteriorata a seguito della pandemia da Coronavirus. La maggior parte degli spazi di libertà sono diminuiti, compreso un significativo calo dello stato di diritto; libertà di movimento, espressione, associazione e riunione; e libertà di commercio”. Dopo essere diminuita significativamente nel 2020, la libertà umana è rimasta bassa durante il secondo anno di pandemia. Su una scala da 0 a 10, dove 10 rappresenta più libertà, il tasso medio di libertà umana per 165 giurisdizioni è leggermente sceso, da 6,79 nel 2020 a 6,75 nel 2021. Il forte declino della libertà iniziato nel 2020 arriva dopo anni di lenta discesa dopo il picco raggiunto nel 2007 e porta la libertà globale a un livello molto inferiore a quello del 2000, in precedenza il punto più basso degli ultimi due decenni.
I dati mostrano che esiste una distribuzione ineguale della libertà nel mondo, con solo il 13,8 per cento della popolazione mondiale che vive nel quartile più alto delle giurisdizioni dell’Hfi e il 37,6 per cento che vive nel quartile più basso. I Paesi che hanno occupato i primi 10 posti, in ordine, sono Svizzera, Nuova Zelanda, Danimarca, Irlanda, Estonia e Svezia, Islanda, Lussemburgo, Finlandia e Norvegia. Le giurisdizioni selezionate si classificano come segue: Taiwan (12), Canada (13), Giappone (16), Regno Unito e Stati Uniti (a pari merito con 17), Germania (21), Cile (26), Corea del Sud (28), Francia (39), Brasile e Sud Africa (a pari merito con 73), Argentina (77), Ucraina (83), Messico (95), India (109), Nigeria (118), Russia (121), Turchia (128), Cina (149), Arabia Saudita (157), Venezuela (160), Iran (161) e Siria (165). Su 10 regioni, quelle con i più alti livelli di libertà sono il Nord America (Canada e Stati Uniti), l’Europa occidentale e l’Oceania. I livelli più bassi si registrano in Medio Oriente e Nord Africa, nell’Africa sub-sahariana e nell’Asia meridionale. Le libertà specifiche delle donne, misurate da cinque indicatori dell’indice, sono più forti in Nord America, Europa occidentale e Asia orientale e sono meno protette in Medio Oriente e Nord Africa, Africa sub-sahariana e Asia meridionale.
Su 10 regioni, quelle con i più alti livelli di libertà sono l’Europa occidentale, il Nord America (Canada e Stati Uniti) e l’Oceania. I livelli più bassi si registrano nell’Asia meridionale, nell’Africa sub-sahariana, nel Medio Oriente e nel Nord Africa”. In questo contesto l’Italia si è classificata al 36° posto subito sotto a Croazia, Uruguay, Capo Verde, e Spagna, superata anche dalla Corea del Sud, Lettonia e Cile, di poco più avanti della Romania, della Slovenia e magra consolazione anche della Francia. Il dato sembrerebbe tutto sommato apprezzabile in valore assoluto, se rispetto all’anno scorso non avesse perso tre posizioni, e se dal 2000, anno in cui gli istituti hanno elaborato questa classifica, la Repubblica Italiana non avesse progressivamente preso una inesorabile discesa passando dal 25° posto a quello attuale (36°). Se andiamo a vedere il grafico che ne descrive gli andamenti, salta agli occhi come la curva si abbassi rapidamente negli anni della pandemia, continuando a decrescere senza che ci sia un accenno di controtendenza. Se da un lato negli anni si sono mantenuti più o meno buoni gli indicatori che riguardano le libertà personali come quella religiosa, di movimento, di associazione e di espressione, dall’altro sono rimasti pessimi quelli economici e legislativi. Si manifesta un quadro in cui il basso ranking della “top marginal tax rate” (aliquota fiscale marginale massima), della competizione, della spesa pubblica, dei trasferimenti, dei diritti di proprietà, della giustizia civile e penale, della dimensione del Governo, comporta che per la libertà economica, disaggregando il dato, l’Italia sprofonda al 56° posto su 165.
Nell’arco temporale preso in considerazione il peggioramento è evidente, come lo è il campo in cui bisognerebbe invece tempestivamente intervenire, ovviamente non nel senso di un ulteriore inutile legislazione, ma liberalizzando e sburocratizzando, unitamente ad una cura dimagrante dell’apparato dello Stato, cosa che da un anno e mezzo l’attuale Governo, nonostante le promesse elettorali, non sembra sappia o voglia fare. È interessante notare infine come i Paesi a più alto grado di libertà hanno un più alto livello di democrazia, di reddito pro capite e di benessere generale, la testa di serie infatti è la Svizzera. Per stare nel club delle grandi nazioni e accrescere la ricchezza delle famiglie e delle persone, sarebbe utile ripensare al modello generale di Paese che non può essere quello che continua a poggiarsi sul dirigismo economico e sullo statalismo politico, salvo procedere verso un inesorabile declino. Solo affrontando seriamente le grandi questioni, dall’economia alla giustizia per non dire delle riforme istituzionali, riducendo il ruolo asfissiante della burocrazia e l’ingerenza dei governi nella vita degli individui, l’Italia potrà dare vita ad un processo di “rinascenza”, abbandonando quell’incapacitante retorica, che caratterizza gran parte del ceto politico, utile per trainare qualche voto in più e disutile per risolvere alcun problema.
di Antonino Sala