giovedì 21 dicembre 2023
È quasi passata la tempesta del caso Ferragni-Balocco, ma non odo augelli far festa. Mentre tutti cinguettano come i passeri di San Francesco, in realtà anche noi consumatori dovremmo fermarci a riflettere, bloccando per un attimo il convoglio transiberiano dei continui stati di accusa dell’ennesimo fesso, dell’ennesimo malcapitato o dell’ennesimo delinquente. Il colpevole è sempre “l’altro” dai tempi di Ish e Ishà (Adamo ed Eva). Eppure, nessuno può dirsi innocente, sosteneva il Messia. Forse dietro di noi c’è un di più: velato, confuso e mascherato. Il di più è che siamo diventati cannibali. La società che trasmette a se stessa cataste di immagini (così tante da diventare invisibili, eppure in noi attive) è governata da sottoculture che somigliano ai sacerdoti aztechi. Qui la politica non c’entra. I tagliatori di teste dell’Isis, gli stupratori putiniani di donne ucraine, i donatori di panettoni, gli amazza-donne: questo divoriamo ogni giorno, in un cannibalismo di massa quotidiano avvilente e utile solo per i sacerdoti dei media. Più si descrivono e si sovraespongono immagini e storie di donne uccise (leggere il raccapricciante 2666 di Roberto Bolaño), più crescono gli emulatori di quelle violenze. È un sospetto senza pretesa di aver ragione. Vale però la pena di pensarci su.
Ricordando ciò che gli uomini di Hamas hanno fatto in un kibbutz, penso che la cultura circolante sia bicefala: si basa sullo spettacolo del crimine commesso, una sequenza infinita di crimini composti da immagini e parole che somiglia all’assassinio di massa rituale meso-americano, là dove la cima della piramide da cui rotolano teste e cuori ancora pulsanti è il video che riprende il volto delle madri e la testa tagliata dei padri. Un potlach continuo di video che non servono affatto a farci odiare il male. Servono a renderlo normale, tanto più vicino quanto più lo buttiamo lontano da noi. Il filosofo Ludwig Feuerbach due secoli fa scriveva profeticamente: “Il nostro tempo preferisce l’immagine alla cosa, la copia all’originale, lo spettacolo della realtà alla realtà stessa, l’apparire all’essere”. Feuerbach aggiungeva che ciò che per la modernità è sacro, in realtà è un’illusione profana, quello che in India si chiama “Velo di Maya”. Guy Debord ne La società dello spettacolo (torniamo a Ferragni-Balocco), scriveva: “Lo spettacolo (la società delle immagini, ndr) non è un insieme di immagini, ma (la forma) di un rapporto sociale tra le persone, mediato da immagini”.
Oltre all’infinita rappresentazione del sangue, la seconda maledizione sociale è la pornografia di massa. Se anche alcune donne vanno sui siti porno, l’esercito di maschi allevato dalla cultura porno è più numeroso del numero degli umani. La tele-visione comincia a un’età sempre più bassa, grazie alla diffusione dello smartphone. Il porno è come il tiggì: mostra il sesso, ma lo trasforma da pratica vitale tra due persone in un rito in cui tu che guardi resti implume come un pulcino. Nelle periferie lo slang che i ragazzini parlano è quello della musica trap. Ed è chiaro che qualcuno a un certo punto (e sono i troppi casi che ci scivolano addosso quasi ogni giorno) voglia “farlo per davvero”. E chissenefrega se quello è uno stupro, se per chi lo commette non lo è. Essendo tutto l’esistente ridotto a video, a influencer e al fariseismo, anche gli adulti posti davanti al porno lo ritengono un passatempo esente da danni e crimini, il che è giuridicamente vero. Ma un danno c’è: il porno mette l’amore tra parentesi. Chiaro che poi, quando i corpi vengono per davvero in contatto, tutto esploda. Con il maschio che torna al diritto tribale del più forte e al diritto di uccidere. La carne negata dal porno, quando viene toccata, produce corto-circuiti mostruosi, come vediamo. Succedeva anche prima, nell’età dei boudoir e dei bordelli.
Però adesso c’è la terza maledizione, l’amplificazione dei media. Dai tempi di Diabolik e di Billy the Kid, il criminale è un eroe rappresentato ed esaltato. Spariscono le narrazioni tipo Il buono, il brutto, il cattivo. La banda della Magliana diventa non la fine, ma il fine del giovane o dell’adulto scempiato nella sua cultura originale (contadina, operaia, piccolo borghese) di cui tutti si vergognano, e reso ignorante dal percorso scolastico culminato nelle scuole medie (che urgerebbe rendere formativa, e non solo una scuola che insegna a odiare il sapere). Se alla fine la narrazione sociale mette sullo stesso piano sesso e porno, crimine e legalità, assassini e santi, e se la società tende al laicismo estremo, allora il recupero folle della sacralità sarà il mini-criminale che si fa sacerdote con potere di vita e di morte, e che di conseguenza ha “diritto” di uccidere, di sacrificare una vittima. Il crimine, quando si svolge, implica la dimenticanza del sé: non sei tu che commetti il delitto. Così, il criminale dimentica se stesso fino al sacrificio, quello di rovinarsi la vita, di passare anni in galera (pochi o tanti non importa). C’è religione persino nella semplice arte del delitto.
Puoi uccidere pensando di andare in Paradiso, perché te lo spiegano quelli della jihad, o come te lo dicono tra le righe i capi della divisione Wagner o il metropolita Kirill I. Così succede che chi non si limita a violenze verbali o al porno compulsivo, si crede che commettere il male equivalga a commettere il bene. È peggio di quanto diceva Charlie Chaplin in Monsieur Verdoux: “Se si uccide un uomo si è un assassino. Se si uccidono milioni di uomini si diventa celebre come un eroe”. Qui ci si autoassolve a prescindere dai giudici. E infatti le Ss portavano sul braccio la scritta Gott mit uns dei cavalieri teutonici. Anche per le Ss, Dio e Satana, santi e peccatori, coincidevano. E al marxismo di Monsieur Verdoux diciamo che anche uccidere una donna, una soltanto, è un abominio. Difficile cambiare registro. È bene rispettare tutti, senza imporre regole e controlli, perché il problema è culturale. È però evidente che le continue narrazioni del crimine e del porno sono la nuova droga di massa. In questo teatro annega il pensiero. E il naufragare in questo mare non dolce dà vita alla realtà falsa, in cui stiamo affondando.
di Paolo Della Sala