mercoledì 22 novembre 2023
Quando un evento decisamente impressionante, come l’assassinio della povera studentessa veneta Giulia Cecchettin, genera sconcerto generale, la reazione collettiva e quella individuale tendono oggi, contrariamente al passato, a separarsi. Sul piano individuale la commozione assume per chiunque i caratteri più vicini alla nostra natura: dolore, amarezza e angoscia. Ma sul piano collettivo le cose stanno diversamente. Non mi riferisco agli immediati commenti che, fra una pubblicità e l’altra, vedono personaggi di vario genere gettarsi nelle analisi più stravaganti, psicoanalitiche, sociologiche e persino politiche su un caso di criminalità specifica e non ancora chiaramente circostanziato, bensì alle forme di espressione pubblica delle condoglianze subito manifestate da studenti di ogni ordine e grado. La cosa, nelle sue motivazioni, è sicuramente comprensibile e apprezzabile ma la loro forma è quanto meno discutibile.
Invece di limitarsi alla ormai consueta processione dove ogni partecipante porta un piccolo cero acceso per simboleggiare la tristezza dell’evento e onorare la persona scomparsa, migliaia di studenti universitari e delle scuole medie, obbedendo a quelle che Gabriel Tarde chiamava le “leggi dell’imitazione”, hanno pensato bene di generare un prolungato e coordinato chiasso assordante. Poiché, fra l’altro, il clamore generalmente accompagna un evento in qualche modo esaltante, non si capisce quale comportamento ulteriormente fragoroso potrebbe richiedere un evento che, invece di presentarsi come orribilmente doloroso, si mostrasse glorioso. Ad ogni modo, l’analogia con la mediocre abitudine, ormai largamente invalsa, di applaudire all’uscita del feretro durante un funerale, è più che mai evidente e chiama in causa il perduto valore del silenzio.
Nei nostri anni il silenzio sembra, infatti, aver perso la sua funzione riflessiva e di sospensione a tutto vantaggio del suono, del chiacchiericcio a bocca spalancata e del rumore prodotto con tutto ciò che capita. Causa di tutto questo è sicuramente la diffusione dei mezzi di comunicazione nei quali il silenzio equivale a segno di inefficienza, sia tecnica sia economica, e tutto è accompagnato, spesso sgradevolmente, da sigle e musiche banali ma, diciamo così, acusticamente incisive. Ma alla base c’è ovviamente la natura umana, ampiamente disponibile a manifestazioni primordiali, senza controllo e senza buon gusto nonostante la sua prosopopea tecnologica portatrice di una modernità solo superficiale.
Seneca sosteneva che la parola e, aggiungiamo noi, i cori e gli applausi, possono essere adatti a commentare i piccoli guai, o i piccoli successi quotidiani, ma i “grandi dolori” dovrebbero generare il silenzio. Il silenzio è importante perché, sia in musica sia nella comunicazione, rende possibile la meditazione e l’attesa, il ricordo intimo e persino la contemplazione. Tutti valori che afferiscono alla vita interiore dell’uomo, ossia esattamente quella che sembra eclissarsi lasciando spazio, letteralmente, all’amplificazione del suono e alla distorsione dell’urlo collettivo. Come, presumibilmente, nella giungla di un po’ di millenni fa.
di Massimo Negrotti