Messina Denaro: la fine dell’ultimo stragista

lunedì 25 settembre 2023


Matteo Messina Denaro è morto. L’ultimo stragista di Cosa nostra arrestato a gennaio dopo trent’anni di latitanza, è mancato nell’ospedale dell’Aquila, dopo un’agonia di alcuni giorni. La Procura dell’Aquila, di concerto con quella di Palermo, ha disposto l’autopsia sulla salma. Il boss 62enne soffriva di una grave forma di tumore al colon che gli era stata diagnosticata mentre era ancora ricercato, a fine 2020. Messina Denaro è morto poco prima delle 2. Il corpo del mafioso si troverebbe ora in uno dei sotterranei dell’obitorio dell’ospedale aquilano che dista non più di cento metri dalla camera-cella nella quale era ricoverato dallo scorso 8 agosto. Fuori dall’obitorio qualche telecamera, pochi fotografi e pochi giornalisti, ma una presenza compatta di tutte le forze dell’ordine. Non ci sono curiosi, ma solo addetti ai lavori a presidiare l’ingresso dell’obitorio. Nelle prossime ore sarà possibile capire la destinazione della salma che è a disposizione dell’autorità giudiziaria di Palermo.

Era stato proprio il cancro al colon a portare i carabinieri del Ros e la Procura di Palermo sulle tracce del boss, riuscito a sfuggire alla giustizia per trent’anni. Dopo la cattura, Messina Denaro è stato sottoposto alla chemioterapia nel supercarcere dell’Aquila dove gli è stata allestita una sorta di infermeria attigua alla cella. Una équipe di oncologi e di infermieri del nosocomio abruzzese ha costantemente seguito il paziente apparso subito, comunque, in gravissime condizioni. Nei 9 mesi di detenzione, il padrino di Castelvetrano è stato sottoposto a due operazioni chirurgiche legate alle complicanze del cancro. Dall’ultima non si è più ripreso, tanto che i medici hanno deciso di non rimandarlo in carcere, ma di curarlo in una stanza di massima sicurezza dell’ospedale, trattandolo con la terapia del dolore e poi sedandolo.

Prima di perdere coscienza ha incontrato alcuni familiari e dato il cognome alla figlia Lorenza Alagna, avuta in latitanza e mai riconosciuta. La ragazza, che aveva incontrato il padre per la prima volta in carcere ad aprile, insieme a una delle sorelle del capomafia e alla nipote Lorenza Guttadauro, che è anche il difensore del boss, è stata al suo capezzale negli ultimi giorni. Venerdì, sulla base del testamento biologico lasciato dal boss che ha rifiutato l’accanimento terapeutico, gli è stata interrotta l’alimentazione ed è stato dichiarato in coma irreversibile. Nei giorni scorsi la Direzione sanitaria della Asl dell’Aquila ha cominciato a organizzare le fasi successive alla morte del boss e quelle della riconsegna della salma alla famiglia, rappresentata da Lorenza Guttadauro e Lorenza Alagna. “Finisce un’epoca ma non il nostro impegno”. Il sindaco dell’Aquila, Pierluigi Biondi, commenta così la morte di Messina Denaro. Il primo cittadino ha voluto anche ringraziare “il personale del carcere Le Costarelle, le nostre forze dell’ordine, il nostro personale sanitario, per non aver mai fatto mancare professione e umanità”.  Venerdì, sulla base del testamento biologico lasciato dal boss, gli è stata interrotta l’alimentazione ed è stato dichiarato in coma irreversibile

“Prima o poi lo prenderemo”. Nella promessa di mettere fine alla latitanza di Messina Denaro si sono esercitati in questi anni ministri dell’Interno, investigatori, magistrati. L’ultima “primula rossa” di Cosa nostra, arrestata il 16 gennaio scorso, si era reso irreperibile subito dopo la cattura di Totò Riina, avvenuta proprio trent’anni fa. E mentre la polizia scientifica si incaricava di aggiornare, invecchiandola, l’immagine giovanile del boss, il suo impero miliardario veniva pezzo per pezzo smontato e sequestrato. È così che è stata smantellata la sua catena di protezione e di finanziamento. È così che è stato demolito il mito di un padrino che gestiva un potere infinito ma viveva come un fantasma, anche se la sua invisibilità non gli ha impedito di diventare padre due volte. Di una figlia si sa tutto: il nome, la madre, le scelte che l’hanno portata a separare la propria vita dall’ombra pesante di un padre che forse non aveva mai visto. Ha trascorso l’infanzia e l’adolescenza in casa della nonna, poi con la madre ha cambiato residenza: non è facile convivere con lo stress delle perquisizioni, dei controlli e delle irruzioni della polizia.

Dell’altro figlio si sa invece quel poco che è trapelato dalle intercettazioni: si chiama Francesco, come il vecchio patriarca della dinasty, ed è nato tra il 2004 e il 2005 in quel lembo della provincia di Trapani, fra Castelvetrano e Partanna, dove Matteo Messina Denaro ha costruito il suo potere economico e criminale. Attento a gestire la sua latitanza, e a proteggerla con una schiera di fiancheggiatori, uno dei boss più ricercati del mondo ha lasciato di sé solo l’immagine di un implacabile playboy con i Ray Ban, le camicie griffate e un elegante casual. E dietro questa immagine ormai scolorita una scia di leggende: grande conquistatore di cuori femminili, patito delle Porsche e dei Rolex d’oro, maniaco dei videogiochi, appassionato consumatore di fumetti. Di uno soprattutto: Diabolik, da cui ha preso in prestito il soprannome insieme a quello con il quale lo chiamavano i suoi fedelissimi. Un altro ancora glielo hanno affibbiato i suoi biografi, ‘U siccu, cioè fonte inesauribile di un fiume sotterraneo. Anche nei soprannomi Matteo Messina Denaro impersonava il doppio volto di un capo capace di coniugare la dimensione tradizionale e familiare della mafia con la sua versione più moderna.

Il padrino di Castelvetrano si è sempre mosso tra ferocia criminale e pragmatismo politico. Per questo è stato considerato l’erede di Bernardo Provenzano ma soprattutto del padre don Ciccio, altro boss della nomenclatura tradizionale morto da latitante nel 1998. Quando il vecchio patriarca scomparve, del giovane Matteo si erano perse le tracce già da cinque anni, nel 1993, prima ancora che fosse coinvolto nelle indagini sulle stragi di quegli anni. E da allora Diabolik era sempre riuscito, a volte con fortunose acrobazie degne dell’imprendibile personaggio del fumetto, a sfuggire ai blitz. Su di lui era stata posta una taglia da un milione e mezzo di euro, ma per fargli attorno terra bruciata gli investigatori hanno stretto in una tenaglia micidiale la rete dei fiancheggiatori. Neanche i suoi familiari sono stati risparmiati: la sorella Patrizia, arrestata e accusata di avere gestito un giro di estorsioni, il fratello Salvatore, i cognati, un nipote. E tanta gente fidata, costituita da prestanome spesso insospettabili, che hanno subito ripetuti sequestri patrimoniali.

Il “fantasma” di Messina Denaro era inseguito da una montagna di mandati di cattura e di condanne all’ergastolo per associazione mafiosa, omicidi, attentati, detenzione e trasporto di esplosivo. Nei più gravi fatti criminali degli ultimi trent’anni, a cominciare dalle stragi del 1992 in cui furono uccisi Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, è stata riconosciuta la sua mano. Lui stesso, del resto, si vantava di avere “ucciso tante persone da riempire un cimitero”. Ma se la fama di uomo spietato gli viene riconosciuta, qualche dubbio si è insinuato sulla sua reale capacità di ricostruire, dopo gli arresti di Totò Riina e di Bernardo Provenzano, la struttura unitaria di Cosa nostra intaccata dagli arresti e da un processo di frammentazione. Un boss che ha traghettato Cosa nostra nel secondo millennio, senza però riuscire ad evitare di fare la stessa fine dei vecchi padrini.

Nel supercarcere dell’Aquila è entrato poche ore dopo l’arresto. La Procura di Palermo ha subito chiesto e ottenuto per lui il 41 bis. Nella sua vita da detenuto, come altri padrini prima di lui, Messina Denaro ha avuto una ,. Letture, poca tivù, le terapie, somministrate in una infermeria ricavata accanto alla cella, quale allenamento nei primi tempi, le lettere e le visite della figlia naturale, Lorenza, riconosciuta solo pochi giorni prima della morte. Quando è apparso evidente che a Messina Denaro restava poco da vivere sono stati autorizzati incontri con i suoi più stretti familiari. Il peggiorare dello stato di salute e due interventi chirurgici hanno poi imposto la sospensione della chemio e la scelta della terapia del dolore. In cella l’ex latitante non è più tornato. Negli ultimi giorni col suo consenso il boss è stato sedato e, rispettando le volontà espresse nel suo testamento biologico, gli sono state staccate le macchine che lo tenevano in vita alla presenza del suo difensore, nominato tutore legale.

I magistrati, in questi mesi di detenzione, l’ex latitante li ha incontrati tre volte accettando di rispondere alle domande del procuratore Maurizio de Lucia, dell’aggiunto Paolo Guido, dei pm Gianluca de Leo e Piero Padova e a quelle del gip Alfredo Montalto. “Io non mi pento”, ha messo in chiaro da subito ammettendo solo quel che non poteva negare, come il possesso della pistola trovata nel covo, e negando tutto il resto: l’appartenenza a Cosa nostra, gli omicidi, specie quello del piccolo Di Matteo, il figlio del pentito rapito, strangolato e ucciso, le stragi, i traffici di droga. “Stavo bene di famiglia”, ha spiegato ribadendo che comunque dei suoi beni, tutti ancora da trovare, non avrebbe parlato. “Se non mi fossi ammalato non mi avreste preso”, ha detto sfottente ai pm spiegando che è stato il cancro a fargli abbassare le difese e a portarli sulle sue tracce. La cupola si era dissolta dopo la cattura di Riina nel 1993 e Messina Denaro era rimasto solo il capo delle cosche trapanesi.

Benché fosse un fedele estimatore della “tradizione”, rappresentata dal padre Francesco morto da latitante nel 1998, il boss era anche un lucido traghettatore, il protagonista di una evoluzione che cercava di lasciarsi la violenza alle spalle per dedicarsi agli affari. Ma i cambiamenti, come ha avvertito la Commissione antimafia, hanno di fatto mantenuto a Cosa nostra un’intatta “capacità di rigenerazione”, un “ampio consenso sociale” e una grande capacità di intimidazione. Di questo processo, di cui Provenzano era stato un anticipatore, Messina Denaro era stato un vero protagonista. Aveva archiviato le condanne per le stragi di Capaci e via D’Amelio, per gli eccidi del 1993 e per la barbara uccisione del piccolo Giuseppe Di Matteo, l’unica barbarie di cui avvertiva un forte peso morale tanto da ammettere il consenso al sequestro ma non alla soppressione del bambino. E aveva quindi proiettato la sua influenza in molti settori economici e ambiti politici, governava la distribuzione delle risorse e l’attribuzione degli appalti e degli incarichi alla cerchia dei fedelissimi. Si era soprattutto circondato, come ha osservato il procuratore Maurizio de Lucia dopo la cattura del boss il 16 gennaio 2023, di tanti esponenti della “borghesia mafiosa” che gli assicuravano ogni copertura: il geometra Andrea Bonafede, del quale aveva adottato la nuova identità, il medico Alfonso Tumbarello e altri personaggi che tenevano un piede nel mondo delle professioni e un altro nelle logge della massoneria.

In queste condizioni Matteo Messina Denaro si dedicava agli sfarzi, ai piaceri della vita e perfino al gusto ostentato delle buone letture. A rendere meno triste la sua trentennale latitanza, tra cambi di covi e fughe improvvise, era soprattutto una rete di conoscenze e relazioni femminili. Il caso più emblematico non è quello della vivandiera che gli portava da mangiare nell’ultimo covo di Campobello di Mazara ma quello che racconta la storia privata tra Matteo e la maestra Laura Bonafede, poi arrestata, con la quale si incontrava anche tra i banconi di un supermercato facendosi beffardamente riprendere dai sistemi di videosorveglianza. Tra tanti amici, complici e fedeli compagni di strada alla fine si fidava soprattutto di una donna: la sorella Rosalia conosciuta come Rosetta. Era lei a gestire, come una meticolosa ragioniera, la cassa di famiglia e la rete di trasmissione dei “pizzini” in cui aveva il nome in codice di “Fragolone”. Era lei per Matteo, il fantasma senza volto, il riferimento certo ma alla lunga si è rivelato anche il suo punto più critico: tra i mille pizzini del fratello custoditi come sacre reliquie ce n’era uno che era una sorta di diario clinico di un malato oncologico. E da lì è partita l’indagine culminata con l’arresto. Fine di una storia e fine di un uomo che viveva nel mito di se stesso con il covo riempito delle immagini cult del Padrino cinematografico e di oggetti simbolici ispirati ai vaneggiamenti di un potere senza limiti e senza grazia. Prima di congedarsi dalla vita, Messina Denaro ha dovuto arrendersi a uno Stato che non riconosceva nel suo manifesto politico sicilianista rintracciato in casa della sorella e se ne va senza lasciare eredi riconosciuti: tutti fatti fuori dalle confische e dagli arresti che hanno fatto terra bruciata attorno all’ultimo padrino di Cosa nostra.


di Mino Tebaldi