Per una lira

lunedì 18 settembre 2023


Pochi sanno chi è Grazia Letizia Veronese, se non si aggiunge “vedova Battisti”. La signora si riaffaccia un quarto di secolo dopo la scomparsa di Lucio per attaccare Mogol. Antichi rancori, colpe di vari generi, beghe giudiziarie che non interessano se non i contendenti, ma gli appassionati non possono dimenticare le pressioni con cui convinse il marito a troncare il sodalizio con Giulio Rapetti, per passare al più impegnato Pasquale Panella. Storiacce di soldi a parte, i versi di Mogol erano semplici, presi dal quotidiano, perché lui aveva sdoganato le banalità rendendole geniali e arricchendo il frasario comune di tante generazioni. Le note di Lucio sembravano nate insieme a quelle parole, non era possibile districare musica e testo senza distruggere l’emozione. Ma la signora Veronese non voleva pensarla così. Sta di fatto che, ad esempio, verso la metà degli anni Ottanta Battisti rifiuta di collaborare con Dalla, l’altro Lucio, l’altro genio della musica italiana nato un giorno prima di lui (e su questa coincidenza di nomi e tempi qualcuno potrebbe immaginare scenari stratosferici).

Il reatino stava cambiando, o qualcuno lo stava convincendo che cambiare era necessario. I venticinque milioni di dischi venduti dalla premiata ditta Battisti-Mogol improvvisamente non compensarono più la mancanza di impegno e di ermetismo, attrazione irresistibile per le grandi bellezze del tempo, e per quelle di oggi. Panella definì triviali le canzoni del Battisti rapettiano, ma quando, alla fine dell’85, esce Don Giovanni, accade l’incredibile: critici come Mario Luzzatto Fegiz e Gigio Rancilio, spesso inclini a esaltare le avanguardie più criptiche, lo stroncano. Alfredo Saitto grida all’insulto verso il proprio pubblico e la sua stessa musica. Attenzione, però: il grande pubblico si divide fra quello dal cuore fremente e quello che urla adorazione per avanguardie che non capisce e neppure ascolta, con una larga fetta di terrorizzati dall’idea di restare indietro, quelli che annuiscono in automatico, non si sa mai. Quando uscì Il nome della rosa, signore truccatissime sotto ombrelloni versiliani e smeraldi giuravano di averlo letto, anzi, divorato in un solo giorno. Ovviamente, chi sceglieva mari chic aveva pure grande padronanza di latino e greco antico, oltre a una cultura smisurata dello scibile umano.

Altrettanto accadde per chi improvvisava commenti surreali a proposito di versi come “Mi butto di sotto o non mi butto/mi sto distrattamente sfrenando dal mio posto proietto il bell’aspetto/ mi tramo intrecciami e puoi vedermi meglio/ allontanando”. Le vendite: intorno agli anni Settanta e Ottanta si comprava in automatico il nuovo disco di artisti come Mina, Battisti e Dalla: non sarebbe stato quasi mai deludente. Dunque, sfruttando quest’onda lunga, Don Giovanni, la prima panellata, riesce a entrare in 350mila case, mentre L’apparenza quasi dimezza, duecentomila copie vendute. Poche, ma per gli sbruffoni di tendenza va bene così: solo l’élite compra (ma non per questo ascolta) i miti incomprensibili. La sposa occidentale, Cosa succederà alla ragazza e l’ultimo, Hegel vivacchiano alimentando la moda. Passano gli anni, nessuno, proprio nessuno ricorda le canzoni di Battisti-Panella, mentre quelle “vere” le cantano ancora oggi persino tanti ragazzini. A quarant’anni dal divorzio, non è certo difficile immaginare la reazione di Giulio Rapetti all’attacco di Grazia Letizia Veronese: Ancora tu? (il resto della frase lo aggiunga il lettore, che lo ricorda benissimo).


di Gian Stefano Spoto