Redde rationem penitenziaria

venerdì 11 agosto 2023


Mille e più sono le criticità che il Governo della Meloni, con il suo ministro Nordio, dovrà affrontare in ambito penitenziario, sapendo però che, a differenza di altri esecutivi che lo hanno preceduto, non godrà di uguali indulgenze e simpatie di cui, soprattutto, i governi di sinistra hanno beneficiato fino a ieri.

Anzi, a motivo del fatto che non ci sono più governi amici da tutelare, quella costellazione formata spesso da un associazionismo ideologico, anche sindacalizzato, che con disinvoltura si veste di bianco e di rosso o di tutti e due colori insieme, potrà tornare a giocare duro, colpendo ai garretti l’avversario politico di sempre, e cioè quella destra che occorre di diritto demonizzare, per cui “mala tempora currunt sed peiora parantur”.

Al riguardo, il mondo drammatico delle carceri italiane rappresenterà la location perfetta per demonizzare una destra che deve ricostruire un sistema abbandonato da anni, ma imbellettato dalle parole.

Si aggiunga che il tempo a disposizione per l’attuale esecutivo, per trovare tempestive risposte e soluzioni credibili, è davvero scarso, cionondimeno dovranno essere rinvenute e imposte al più presto, pena la capitolazione definitiva del sistema penitenziario e di tutto ciò che potrebbe conseguirne in termini di fiducia e, perfino, di pace sociale.

Una esigenza si imporrà, però, tra tutte ed è quella di dover assicurare il rapido “ritorno” dell’organizzazione e del funzionamento della medicina penitenziaria al mondo della Giustizia e all’Amministrazione Penitenziaria, dopo la disastrosa esperienza delle regioni, onde garantire una effettiva ed eguale assistenza sanitaria alle persone detenute su tutto il territorio nazionale, nei fatti oggi negata, così come le cronache giornalistiche puntualmente ci ricordano.

Non sarà, all’inizio, cosa facile perché le Regioni che hanno operato in questi anni, per il tramite delle aziende locali, non hanno assolutamente risolto, in tante realtà territoriali, le criticità che in modo progressivo, torrenziale, calzante, si sono riversate sulle nostre carceri e sul personale penitenziario.

Il paradosso è che vittime di questo sfacelo non sono state, perciò, soltanto le persone detenute, ma anche gli stessi operatori penitenziari, insieme a quelli sanitari, mandati quest’ultimi non poche volte allo sbaraglio, senza neanche che fossero spiegati agli stessi i rischi ed i contesti dove avrebbero dovuto operare e senza specifiche preparazioni dedicate al mondo penitenziario.

Per tanti, infatti, si è trattato di una realtà di lavoro spesso sconosciuta, con medici non poche volte privi di esperienze “sul fronte” e con infermieri che si trovavano catapultati in un contesto ben diverso rispetto a quello degli ambulatori e degli ospedali pubblici, ancorché pure in questi non fossero, talvolta, assenti problematicità di ordine pubblico e sicurezza per gli stessi operatori sanitari.

La sanità penitenziaria, infatti, si intuisce che è cosa “altra” rispetto a quella che assicurata (quantomeno sul piano teorico) alle persone “libere”: le cronache sulle criticità che riguardino le corsie degli ospedali e dei pronto soccorsi sono note, ma indubbiamente altre, e ben più complesse e temibili, sono quelle che possono invece incrociarsi all’interno delle carceri sovraffollate e con un forte sotto organico del personale di polizia penitenziaria e degli altri ruoli.

Insomma, il carcere già di suo costituisce un ambiente tra i più difficili e “pericolosi”, quantomeno perché, fino a prova contraria, nelle prigioni i detenuti non ci si recano spontaneamente, con la speranza di curare le loro personalità e, solitamente, vi accedono portando con sé rabbia, disperazione, grandi disagi sociali e, non poche volte, anche forti aggressività che rivolgono sia verso sé stessi che verso gli altri ristretti o nei riguardi dello stesso personale.

Comunque, con le diverse controriforme, puntualmente attuate dai precedenti governi, certamente si è riusciti, però, nell’epocale risultato di assicurare, senza bisogno di dover distinguere il Nord Italia dal Sud, le isole dal Continente, le città metropolitane da quelle che non lo fossero, una uguaglianza di mal trattamento per quanto attenga il diritto alla salute.

Questa evidenza andrebbe ricordata nei manuali giuridici e di sociologia, in quanto è la dimostrazione plastica di come le incompetenze e la scarsa conoscenza del mondo delle carceri siano impietosamente prevalse nel dibattito politico a senso unico negli scorsi anni, condizionando ogni cosa.

A tanto si aggiunga il maltrattamento, solidale, subito non soltanto dalle persone detenute, ma anche dalle loro famiglie e da quanti sono in apprensione per le prime, oltre che dallo stesso personale penitenziario, sia di polizia che quello delle funzioni centrali, al quale occorrerà aggiungere quello sanitario, per quanto alle dirette dipendenze delle Asl o, comunque, ad esse interconnesse per il tramite del dedalo di cooperative affidatarie di attività mediche ed infermieristiche all’interno delle carceri.

Maestranze, quest’ultime, costrette non poche volte ad operare senza effettive forme di incentivazione retributiva, di carriera, nonché di garanzie contrattuali in relazione al contesto speciale e dove si assiste in talune realtà a continui avvicendamenti, preferendosi lasciare il lavoro alle dipendenze seppure indirette di un datore pubblico, preferendo il mondo della sanità privata.

Basterà interrogare qualunque medico o infermiere che operi nelle carceri, per avere o meno conferma di quanto sostenga, oppure, alla meno peggio, sfogliare qualche quotidiano che parli della salute in carcere, semmai guardando alle prigioni toscane, oppure a quelle piemontesi e lombarde, tanto per non concentrarci, come sempre ed esclusivamente, sulle tradizionali realtà in sofferenza del meridione o delle isole.

Per modificare il trend, sommessamente, do alcuni suggerimenti: anzitutto occorrerà intervenire, con somma urgenza, in tema di arruolamento straordinario del personale sanitario, proponendone l’incardinamento nell’amministrazione penitenziaria. D’altronde è verosimile che torni a formarsi, presso il Dap, un’area amministrativa che sarà rivolta alla medicina penitenziaria, a mente dell’assunzione già prevista di medici del Corpo della polizia penitenziaria. Ciò consentirebbe di immaginare, in progress, una riforma organica che vedrà già la presenza di personale sanitario appartenente all’amministrazione.

Nell’affrontare tale prima urgenza, si consiglia di delegare le necessarie attività assunzionali alle direzioni degli istituti, talché i relativi procedimenti andranno curati dallo stesso Dirigente penitenziario a capo della struttura carceraria; quest’ultimo, giocoforza, dovrà orientarsi verso la realtà territoriale locale e interloquendo utilmente con gli ordini e albi professionali, perché è di tutta evidenza che sia preferibile ingaggiare risorse umane già presenti sul territorio, piuttosto che preferire quello pendolare.

La non prossimità, ove si cercasse fuori regione, potrebbe infatti influenzare non poco l’organizzazione dei servizi, soprattutto quelli a turno h. 24, riflettendosi sulla loro regolarità, così come nelle rotazioni, per la fruizione di riposi settimanali e ferie, per la copertura non programmata di dipendenti che si ammalino, etc.

Onere degli uffici centrali, costituendosi, opportunamente, una direzione generale dedicata proprio alla sanità penitenziaria nel suo complesso, e perciò inclusiva del personale penitenziario, sarà, semmai, quello di disporre di uno schema tipo ministeriale che il direttore del carcere dovrà adottare, demandandone la vigilanza ai Provveditorati regionali, i quali riferiranno di eventuali anomalie e potranno avocare a se stessi tali incombenze ove si rilevassero violazioni o abusi di qualunque natura nella scelta dei medici e del personale infermieristico.

Dovrà essere, inoltre, considerata l’utilità di reintrodurre la figura del medico quale componente del Consiglio di Disciplina relativamente alle procedure sanzionatorie previste per le persone detenute che violino le regole penitenziarie, o quantomeno stabilire l’obbligo della sua presenza nel corso del procedimento, al fine di offrire la necessaria consulenza all’organo disciplinare; questo perché la figura del medico può davvero essere dirimente nello stabilire il grado di consapevolezza delle azioni apparentemente di rilevanza disciplinare del ristretto, soprattutto ove si appurasse che esse risultino il riflesso delle condizioni di salute psico-fisica del predetto, soprattutto ove si trattasse di persone instabili perché affette da patologie di natura psichiatrica, talché non certamente sanzioni, bensì cure mediche appropriate andrebbero imposte.

L’esperienza che ho accumulato al riguardo mi fa, infatti, benedire mille volte la circostanza che ai tempi in cui ero direttore penitenziario il Consiglio di Disciplina si avvalesse di tale importante figura professionale come componente del collegio, la quale contribuiva a meglio decriptare la condotta del detenuto, ove fosse portatore di problematiche sanitarie, consentendo all’organo disciplinare di decidere con ragionevolezza ed equità, nonché addirittura di intercedere presso altri uffici o autorità pubbliche ove ciò servisse a migliorare lo stato delle cose e le problematiche che si riconoscevano essere in capo al ristretto.

Il tutto non solo consentiva, in modo trasparente, di ripercorrere le ragioni che avevano indotto l’organo a decidere il caso, ma anche per soddisfare l’esigenza di chiarezza e la stessa sensibilità della polizia penitenziaria e degli altri operatori sui quali, non poche volte, si era rivolta l’azione irregolare se non anche offensiva e violenta del detenuto sottoposto al procedimento disciplinare.

Tra l’altro, con la presenza del medico quale componente dell’organo disciplinare, si rafforzava anche l’effettiva tutela dello stesso ristretto, non essendo contemplata la presenza del difensore.

Il detenuto, perciò, non veniva, per così dire, “spaccottato” o scomposto in più entità virtuali, ma era considerato come una sola essenza, ove si analizzavano i diversi aspetti della sua identità di persona, onde riassumere tutti i suoi profili personologici, talché andavano esaminati i tratti penali e comportamentali, idem per quelli sanitari, di orientamento di genere, di religione e provenienza geografica, di cultura, etc.

Il tutto consentiva di interpretare il sensus rerum di una condotta che, altrimenti, di primo acchito o in modo frettoloso, avrebbe potuto leggersi esclusivamente come rilevante sul piano disciplinare, quando in realtà era cosa più articolata e complessa.

Ma anche le tempistiche dei procedimenti erano più veloci, non prevedendosi un fermo amministrativo così esagerato come l’attuale il quale, di fatto, può ben superare i dieci giorni dal momento della segnalazione disciplinare (che potrebbe non corrispondere, per quanto tempestiva, alla data della presunta commissione del fatto e del relativo rapporto di servizio stilato dagli operatori penitenziari), potendo arrivare, in punto di diritto, fino a venti, così inducendo gli stessi detenuti e il personale a ritenere che le condotte irregolari siano state, in realtà, banalizzate, tollerate se non pure incentivate pro-futuro, comunque non considerate nella loro gravità, favorendosi, in mancanza di provvedimenti tempestivi e certi, il prosperare di ulteriori reciproci risentimenti, con tutto ciò che può derivarne in un contesto già gravido semmai di tensioni.

Si comprenderà, al contrario, come una decisione rapida ed equilibrata favorisca, sul piano anche pedagogico, la migliore gestione del ristretto, nonché acquieti gli animi di quanti, altri detenuti e/o gli stessi dipendenti penitenziari, si siano sentiti vittime di condotte offensive se non anche violente da parte di chi parrebbe abbia violato le norme.

Guai, infatti, a far cadere nel silenzio una qualche segnalazione disciplinare, perché la denegata decisione può favorire la realizzazione di effetti a catena di diversa pericolosità e natura.

Oggi, a sentire i sindacati della polizia penitenziaria, pare che le cose vadano proprio nel verso opposto e, se davvero fosse vero che molti procedimenti disciplinari siano destinati, ogni giorno, verso la perenzione e/o comunque non si assumano, al riguardo, decisioni, non dobbiamo poi meravigliarci se tutto il contesto apparirà disorientato, favorendo, così, la realizzazione di ulteriori peggiori repliche, reazioni, asperità.

Anche da questo punto di vista, la Riforma Orlando, frutto di Stati Generali con troppi Comandanti degli stati maggiori ma pochi fanti che avessero vissuto la trincea, ha avuto, a mio avviso, effetti disastrosi e, ove fossi in torto, basterebbe chiederlo direttamente a quanti operino nelle carceri: in primo luogo ai direttori ed ai comandanti dei reparti di polizia penitenziaria, ma anche ai funzionari giuridico-pedagogici ed ai tanti poliziotti che ogni giorno devono fare il segno della croce all’ingresso e all’uscita da quei luoghi di lavoro fatti di cemento spesso ammalorato e di acciaio ossidato delle sbarre: il loro sarebbe un giudizio pro-veritate.

Ancora, l’insensato obbligo sulla riservatezza anche verso gli stessi operatori penitenziari (cioè, di quanti operino, per mission istituzionale, accanto ai ristretti) sulle condizioni sanitarie del detenuto che hanno, però, l’obbligo giuridico di governare, tutelare, controllare, rappresenta un vero e proprio obbrobrio.

Ad essi viene inibita la conoscenza dei dati sanitari, che potrebbe, invece, essere indispensabile per la gestione, in sicurezza, della persona detenuta; tra l’altro questi servitori dello Stato rimarrebbero comunque vincolati dal segreto d’ufficio, la cui violazione o abuso, se accertati, determinerebbero l’irrogazione di sanzioni di natura penale e amministrativa.

Eppure, questa esigenza di conoscenza, così ovvia, è fino ad oggi negata, adducendo alla riservatezza dei “dati sanitari”, così come prescritto da norme che sono decontestualizzate rispetto al mondo delle carceri, in quanto aventi una logica in ambiti diversi, lì dove le persone sono libere e autonome, quantomeno virtualmente. Gli operatori penitenziari, dovranno, pertanto, svolgere i loro compiti, senza conoscere lo stato di salute delle persone detenute sulle quali, però, dovranno esercitare il loro potere di sorveglianza e le funzioni trattamentali, con tutte le responsabilità che ne derivano in tema di custodia; fingendo la presenza di un servizio sanitario sempre presente ed efficace: eppure quanti problemi, interferenze e fraintesi, se non anche falsi allarmi, sarebbero superati ove, invece, avessero contezza di tanto.

È evidente, infatti, che ove si avesse la consapevolezza che un agito, anche apparentemente violento, di un ristretto fosse invece conseguente ad uno stato di malattia (perché tossicodipendente in astinenza, oppure perché avente problemi di carattere psichiatrico, o perché epilettico, etc.), la lettura della sua presunta condotta irregolare sarebbe interpretata diversamente dall’operatore penitenziario, che potrebbe meglio calibrare ogni sua iniziativa, anche allo scopo di soccorrerlo.

Sapere, ad esempio, che un atteggiamento reattivo, o una scarsa collaborazione del ristretto ad eseguire un ordine legittimo, consegua dal fatto che il soggetto non abbia assunto la terapia farmacologica prescritta, per propria volontà o perché erroneamente non somministratagli o indebitamente sottrattagli da altri compagni, potrebbe fare eccome la differenza; così come altro tipo di misure di contenimento si assumerebbero ove, ad esempio, nel caso di una lite tra i ristretti, si sapesse che uno dei contendenti è emofiliaco oppure soffra di cuore, sia sottoposto a speciali cure mediche, etc.

Insomma, non bisogna essere scienziati per capirlo e gli esempi che potrei fare sarebbero, ahimè, numerosi, ma non è il caso; è sufficiente rappresentare che quanti hanno modificato, negli anni recenti, il precedente regolamento di esecuzione della legge penitenziaria e la stessa legge penitenziaria, per quanto potessero essere anche dei Soloni del diritto, probabilmente non avevano una conoscenza reale e vissuta del mondo delle carceri e della sua comunità, ma al massimo una visione teorica, se non talvolta ideologica e settaria, frutto anche, verosimilmente, di un sentimento di sfiducia, se non di risentimento, verso le forze di polizia in genere e gli operatori penitenziari in particolare.

Al contrario, invece, tutte le notizie afferenti allo stato di salute, l’orientamento sessuale, la professione di fede e perfino la sensibilità politica, andrebbero conosciute da quei servitori dello Stato che, in ragione del proprio mandato istituzionale di rilevanza costituzionale, debbano occuparsi del ristretto, nel rispetto, già contemplato, del segreto d’ufficio.

Ma tornando alle questioni sanitarie, sarà necessario che il personale medico ed infermieristico non solo sia in numero sufficiente, ma anche meglio trattato sul piano economico e contrattuale, altrimenti nessuno si farà avanti. Se si rischia già tanto nei pronto-soccorsi degli ospedali o presso le guardie mediche, perché il personale sanitario dovrebbe ricercare ulteriori rogne addirittura all’interno delle carceri?

Per rendere la medicina penitenziaria attrattiva, perciò, occorreranno delle risorse finanziarie ad hoc ed una fonte costante di finanziamento potrebbe essere ricercata proprio “in house”, e cioè nella Cassa delle Ammende, oppure nel Fug, Fondo unico della Giustizia. Si tratterrebbe, nel primo caso, di un prelievo che sarebbe perfettamente comprensibile e che troverebbe consenso sia da parte degli operatori penitenziari che delle stesse persone detenute, le quali vedrebbero così finalmente migliorato il servizio sanitario così male erogato.

Le somme in questione andrebbero impegnate al miglioramento delle retribuzioni degli operatori sanitari dei ruoli soprattutto infermieristici, prevedendo semmai una indennità aggiuntiva, “di contesto”, in quanto le carceri sono luoghi dove il rischio è significativo e le continue criticità che devono affrontarsi li rendono ambiti di lavoro particolarmente stressogeni, prevedendo anche dei miglioramenti nello sviluppo di carriera per quel personale che operi in termini di esclusività per l’amministrazione.

Non solo, ma particolare favore andrebbe rivolto anche ai medici ed infermieri che intendano aggiungere al lavoro nella medicina penitenziaria altre attività professionali sia in ambito pubblico che nel privato. Tra l’altro ne guadagnerebbe pure la fiscalità in generale ed è incomprensibile che chi voglia impegnarsi con passione ed in più ambiti sia invece penalizzato, quasi come se avessimo un surplus di risorse umane.

Ciò favorirebbe l’attrazione della medicina penitenziaria e la fidelizzazione dei dipendenti, rallentando, o addirittura stoppando, l’esodo dalle carceri degli operatori sanitari, allorquando quest’ultimi trovino, soprattutto nella concorrenza con la sanità privata, condizioni di lavoro e trattamenti economici più allettanti.

Se non si procederà rapidamente in tal senso, non si andrà da nessuna parte e rimarranno solo le chiacchiere, le proteste, le malattie e la rabbia di detenuti, oltre che quella degli operatori penitenziari, lasciati tutti allo sbando.

Inoltre, senza giri di parole, dovrà riconsiderarsi l’urgenza di ricostituire gli Ospedali Psichiatrici Giudiziari, affinché si ponga fine alla scandalosa situazione attuale che vede tanti, troppi, detenuti sofferenti di malattie mentali, e che sono pericolosi sia verso sé stessi che verso le altre persone incarcerate, oltre che nei riguardi dello stesso personale e di chiunque avesse la ventura di incrociarli (magistrati, forze dell’ordine, avvocati, volontari, ministri di culto, etc.), scaraventati all’interno dei circuiti penitenziari, nella vana attesa che si liberino dei posti nelle Rems (Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza), ove invece andrebbero già assegnati come internati per essere curati. Rems che oggi, verosimilmente, non sono neanche in grado di gestirli sul piano dell’aggressività, anche ai fini della tutela degli stessi operatori e degli altri ospiti della struttura; paradossalmente, devono ingaggiare dei vigilanti privati (ancora non si comprende con quali precisi compiti), i quali non possono certamente svolgere le funzioni di polizia giudiziaria e di polizia amministrativa che lo status di poliziotti penitenziari contempla.

Insomma, il tempo delle finzioni è finito e c’è da sperare che non finisca prima proprio lo stesso sistema penitenziario, trascinando ancora di più verso il basso quel minimo di cultura giuridica e di rispetto verso una persona che soffra dal punto di vista psichiatrico, ancorché accusata o condannata per avere commesso dei gravi reati.

Ricostruire un sistema sanitario penitenziario davvero di standard europeo dovrebbe essere l’obiettivo da perseguire e se si darà ascolto agli operatori penitenziari, nonché a quelli delle professioni sanitarie che per davvero operano nelle carceri, sicuramente lo si potrà conseguire, seppure a step.

È evidente che il tema sanitario è soltanto uno dei tanti snodi che un sistema penitenziario che voglia essere serio dovrà affrontare, posto che altre concorrenti problematiche stanno letteralmente uccidendo il mondo delle carceri, che pur dispone di una squisita cultura dell’esecuzione penitenziaria, la quale ci consentirebbe perfino di primeggiare in ambito Ue e verso le altre realtà di stampo democratico e occidentale.

Le aree di crisi sono tante, per cui sarà opportuno declinarle una per volta, ma sistematicamente in altri articoli, talché mi limiterò ai soli annunci: esigenza di una nuova architettura penitenziaria, impiegando soluzioni ingegneristiche innovative, ma indispensabili (ad esempio: realizzazione di sistemi di climatizzazione generalizzata negli istituti penitenziari in funzione e l’obbligo progettuale di prevederli in quelli già in fase di realizzazione, così come nelle nuove strutture che si intenderanno realizzare; diversa predisposizione degli impianti antincendio per un impiego in sicurezza da parte del personale istruito, e non lasciati alla mercè semmai dei detenuti in rivolta; la sorveglianza telematica ed il telecontrollo avanzato; la vigilanza delle aree penitenziarie, nonché la gestione delle emergenze, anche attraverso l’impiego di droni da parte della polizia penitenziaria; la realizzazione di ambienti sanitari di degenza e per la medicina d’urgenza che corrispondano a quelli accreditati dal sistema sanitario, in quanto rispondenti agli stessi parametri predefiniti, etc.); la rivisitazione ragionata degli organici di ogni ordine, ruolo e grado, basati su criteri oggettivi e uguali per tutti gli istituti di pena; il rafforzamento e la costituzione dei poli scolastici e universitari all’interno delle carceri, pure prevedendo, ove possibile, l’ingaggio di personale scolastico penitenziario dedicato per le scuole dell’obbligo; una migliore programmazione della formazione professionale per le persone detenute sulla scorta di tavoli permanenti di consultazione in ogni regione e con le categorie imprenditoriali, dell’artigianato, nonché con le Oo.Ss. più rappresentative; la rivisitazione urgente delle norme attuali in materia di lavoro, assolutamente inefficaci e macchinose, per quanto attenga l’assunzione di persone detenute alle dipendenze dell’amministrazione; la rivisitazione del servizio complessivo di preparazione dei pasti da erogare alle persone detenute, rivendendo tutti gli appalti in materia di mantenimento delle persone ristrette, al fine di assicurare vitti dignitosi che tengano davvero conto delle esigenze alimentari della popolazione detenuta ed eliminare ogni opacità; corrispondente e maggiore attenzione anche nei riguardi dei servizi di somministrazione di pasti al personale penitenziario; miglioramento degli alloggi collettivi e di quelli destinati al direttore ed al comandante (spesso le Caserme non sono dissimili, soprattutto in alcuni vecchi istituti, da quelli destinati alle persone detenute ed i funzionari sono costretti a vivere, con le loro famiglie, all’interno di aree penitenziarie); rivisitazione dei modelli di preparazione professionale del personale, incentivando e premiando una formazione permanente ed obbligatoria da parte di tutti gli operatori, in grado di esaltarne gli aspetti professionali peculiari, perché rivolti sia alla sicurezza che al trattamento delle persone detenute, etc.

Insomma, c’è da rivedere e ricostruire tutto, ma proprio tutto, sapendo che il personale penitenziario, di fronte ad un serio interessamento politico e della collettività verso la propria mission, saprà certamente offrire il meglio di sé stesso, perché operare bene fa bene a tutti e operare, nel rispetto del diritto, è interesse di tutti, tranne di quelli che, finora, brandeggiano solo ideologie politiche e pseudo-sociologiche, sganciate dal senso comune, hanno favorito il peggioramento del sistema, aggiungendo dolore a patimento, senza offrire sicurezza alla collettività.

(*) Presidente dell’Osservatorio Internazionale sulla Legalità di Trieste


di Enrico Sbriglia (*)