Andrea Purgatori, da Ustica al suo mistero

giovedì 20 luglio 2023


La morte improvvisa di Andrea Purgatori, il nostro Carl Bernstein italiano, a soli 70 anni, rivela quanto e come è cambiato il giornalismo. Carl Bernstein, per chi non lo sapesse, è il super reporter che, insieme al collega Bob Woodward, nel 1972, firmò l’inchiesta sullo scandalo Watergate, che costrinse l’allora presidente degli Stati Uniti Richard Nixon a rassegnare le dimissioni. Ai miei tempi, quell’inchiesta e la professionalità dei due giornalisti venivano studiati e considerati l’espressione più alta della qualità dell’informazione, perché come si diceva “il potere del giornalismo è quello di indagare su tutti e di far cadere anche il presidente degli Stati Uniti d’America”. E Andrea Purgatori apparteneva a questa categoria di giornalisti. Era un bell’uomo, non belloccio intendo, ma affascinante e soprattutto ironico. Lo chiamavamo “il Dustin Hoffman della stampa italiana”, perché aveva un pallino: fare il giornalista all’americana. Apparteneva alla “gloriosa” squadra della giudiziaria del Corriere della Sera, guidata da Paolo Graldi e Antonio Padellaro (poi divenuti direttore de Il Messaggero il primo e direttore de l’Unità, il secondo), di cui facevano parte Marco Nese e altre firme di punta. Ma lui, Purgatori, nato nel 1953 a Roma e diventato “giornalista professionista” nel 1974, aveva conseguito un Master in “Scienza del Giornalismo” alla Colombia University di New York.

Quanto ce la menava per questo! Io non lavoravo al Corriere, ma alla Rusconi Editore, esattamente al settimanale femminile Gioia. Però avevo una tale brama del giornalismo che mi arrampicavo ovunque pur di vedere da vicino “il mestiere”. Figuratevi quando riuscii, tramite amicizie varie, a stringere contatti con il top dell’informazione del momento, appunto “la giudiziaria del primo quotidiano italiano”. Erano i tempi delle stragi, degli anni di piombo, delle manifestazioni calde e roventi, in cui talvolta “ci scappava il morto” all’università e nei licei. Erano gli anni della mafia di Tommaso Buscetta e dell’antimafia di Giovanni Falcone, dei maxi processi di Palermo e Roma, dove dentro “alle gabbie” c’era la seconda generazione dei cosiddetti “uomini d’onore” e numerosi terroristi.

Un giorno Andrea, avendo capito la mia passione autentica come la sua, mi rimproverò così: “Non ti mettere a ridere quando dico che la differenza sta nel fatto che io ho il master in giornalismo alla Colombia. È una cosa vera”. E mi raccontava nei dettagli, cioè dalla salita sull’aereo Alitalia, al filo che gli faceva qualunque hostess, allo sbarco nella Grande Mela, ai suoi avventurosi rapporti con persone, colleghi, amici (se sono stata a 21 anni a New York lo devo a lui, che mi fece ospitare da una sua carissima capo scalo Alitalia, a casa sua), allo studio, laggiù Oltreoceano, delle tecniche per “fare gli scoop”. Cioè “trovare la verità” anche se fa saltare un’amministrazione presidenziale. E, a Roma, i nostri referenti maestri ripetevano che “i giornalisti sono le sentinelle del potere”. Certo “il master alla Colombia” doveva essere cosa diversa se Andrea su Paolo (Graldi) e Antonio (Padellaro) metteva quel “di più” che, secondo lui, faceva “la differenza”.

A modo suo, quando riuscivamo a stare soli, mi narrava le giravolte e le avventure per i suoi primi contatti con la Cia. Era un grande narratore, infatti poi mi disse: “Non sai quanto si guadagna con le sceneggiature!”. “E come si fa a passare da giornalista a sceneggiatore?”, chiedevo io. “Devi studiare”, insisteva. “Ci sono tecniche precise”. La sua brillante carriera forse non è arrivata al Premio Pulitzer, l’Oscar del giornalismo, ma è coronata di titoli e di meriti, uno in particolare: il Nastro d’argento al Miglior soggetto per Il muro di gomma, il film per la regia di Marco Risi del 1991 “sulla strage di Ustica”. Che parla e svela il mistero? No, parla di lui, è il film di Andrea. “Ehi, dimmi, come sei riuscito a gabbare tutti, il direttore, i generali, gli americani, e farti il primo piano alla Woodward senza aver svelato il caso e fatto cadere nessuno?”, lo incalzavo. Ecco, lì forse si è incrinata la nostra più che affettuosa, brillante e corroborata amicizia. “Non dire sciocchezze, ti prego”. “Tu, che preghi qualcuno, perché, hai paura?”, ironizzavo.

“Lo hai visto bene il film?”, mi disse alla fine scocciato e riferendosi alla scena in cui si getta sul letto come disperato e sobbalzante al primo rumore. Lo fissai altrettanto seria, poi con una smorfietta leziosa, minimizzai: “Vuoi fare l’attore o il giornalista?”.

Andrea Purgatori è stato “il più grande segugio del palazzo delle nebbie”, cioè la Procura di Roma di Piazzale Clodio. Dava “il buco” a tutti! Ossia aveva le notizie che altri non avevano. E non capivamo come facesse a ottenere dai magistrati titolari delle inchieste quegli scoop. Poi un giorno, “mannaggia” mi raccontò, “sono rimasto impigliato”. “Tu, che sei infallibile”, lo provocavo io. Andrea, forte del suo fascino irresistibile, mi spiegò il segreto: si faceva amiche tutte le segretarie dei magistrati di punta delle indagini. Alla fine delle udienze, quando gli altri andavano al bar o a casa, lui passava a salutarle e “quelle” in cambio di un bacetto o di una promessa lo facevano entrare nelle stanze dei super procuratori, dove lui rovistando nei cestini si portava a casa “le carte e le brutte copie”.

Fino al giorno che “il mastino più mastino di lui, Domenico Sica, lo chiamò e gli chiese: “Come ha fatto Purgatori ad avere la notizia che ha sparato sul giornale. Perché io non ho trasmesso ancora la minuta”. Il “primo segnalaccio”, diceva. “Vogliono tapparti la bocca?”, gli chiesi. Non rispose. Lo ha fatto con i programmi, le inchieste, i libri, la sua doppia attività di sceneggiatore di numerose pellicole: Il giudice ragazzino (1994), Fortapàsc (2009), L’industriale (2011). E per la televisione: Caravaggio (2008), Lo scandalo della Banca Romana (2010), Il commissario Nardone (2012), Lampedusa (2016). Successi che gli sono valsi l’ingresso nell’Accademia del cinema italiano e nell’Accademia europea del cinema, la presidenza delle Giornate degli autori e, dal 2015, un posto nel Consiglio di gestione della società italiana degli autori ed editori (Siae).

Andrea Purgatori lascia una ex moglie storica dell’arte di origine tedesca, i loro tre figli (Edoardo attore, Ludovica e Vittorio) e una compagna capo ufficio stampa del Comune di Rimini. Soprattutto lascia un numero significativo di fan televisivi, che fedelmente lo seguivano ogni settimana ad Atlantide, su La 7, dove affrontava, sceneggiava e recitava inchieste “scottanti” sui casi di ieri e di oggi, dalla sparizione di Emanuela Orlandi alle curiosità ed enigmi perfino della Seconda guerra mondiale. Voleva accreditarsi come “il Piero Angela dell’infotainment”. Sempre all’americana. Dunque, un grande giornalista, colui che svela i casi, anche i più terribili e ingarbugliati, o “coperti” come si dice in gergo, cioè ai quali “non ci puoi arrivare”, con la passione, il coraggio e la capacità. Nessuno dica quello che è diventato di uso comune: “Non leggo i giornali e non ascolto la tivù, tanto raccontano solo bugie e fake news”.

E neppure quello che pensa qualcuno all’interno dell’ambiente, tipo “scrivere la verità e fare la tua fine?”. Tutte scuse. I buoni e bravi maestri ancora oggi insegnano che quando hai superato la massa di “chiacchieroni”, ma anche investigatori, servizi, intelligence, procuratori, alla fine arriva “la penna”, cioè colui che scriverà o racconterà per l’opinione pubblica. Non chi condanna o chi assolve, ma chi scrive e dimostra, come diceva Indro Montanelli, “la cosa più vicina alla verità”. Mi stuzzicò Andrea un giorno, dandomi un buffetto sulla guancia: “Alla fine arrivi tu, bambola, che con quegli occhi fai milioni di fotografie”. Sapeva chi ero, la figlia di Lorenzo Papi, il fotografo di Roberto Rossellini, Vittorio De Sica e Luchino Visconti e il gran cinema italiano, per finire (ultimo lavoro di papà) con i fratelli Paolo e Vittorio Taviani. Già, qual è l’arma segreta del giornalista?

Come è morto Andrea Purgatori? Ieri quando ho letto la notizia sul telefonino, fino a un minuto prima ridevo per quelle stolte vignette che girano sul web, ho avuto, come dire, quando si passa dallo spasso al dolore acuto? Ho subito esclamato nel luogo pubblico dove mi trovavo: “Impossibile”. Ma, scusate, esistono malattie talmente fulminanti che uccidono un uomo sano, forte e in forma in pochissimo tempo? Da quando, da dopo il Covid? Se Andrea Purgatori fosse come Enzo Jannacci, che cantava “si potrebbe andare tutti quanti al mio funerale, vengo anch’io, no tu no”, non direbbe forse “indaga tu sulla mia morte e poi vedi l’effetto che fa”. Lo scrivo perché ai “nostri tempi” anche una scomparsa come questa andava data con precisione e dovizie di particolari, accertata, spiegata e a essa andavano dedicati tutti gli articoli. Ma come, scompare prematuramente e improvvisamente, quello che i giornali definiscono a turno “il giornalista che indagava la verità, il segugio che ha svelato i misteri, il coraggioso del muro di gomma, e non diciamo come è morto colui dal quale tutti attendevamo le prossime puntate sul mistero dei misteri?

Io avevo perso i contatti proprio ai tempi dei suoi scoop su Ustica. Leggi e rileggi, leggi e rileggi, ebbi un’intuizione. “Cavolo, deve essere andata così”. Figurarsi se mi sarei potuta permettere di sorpassare il numero uno del genere, mettendomi io a scrivere di Ustica. Attenta, mi pare che dal cielo lanciasse segnali Pier Paolo Pasolini (o forse erano solo le mie accurate letture): “Ci vogliono le prove”. Sì, lo ammetto, sul mio blog comincio a scrivere di Ustica anche io, fino ad arrivare a parlare con il presidente dei famigliari delle vittime, fino al punto che proprio se avessi scritto altre righe anche solo sul mio blog, Andrea mi avrebbe potuto dire “si fa questo, così, a un amico?”. No, non si fa. Cioè, sì, per il mestiere, i ruoli, gli ingaggi, la fama, altro se si fa. Ma se sei una persona e poi vuoi avere altre intuizioni, cosa insegna il Vangelo? “Ama il tuo nemico”. E dunque gli feci una telefonata: “Ciao Andri…”.

Umm, deve aver pensato Purgatori, mi chiama “confidenzialmente”. Gli dissi chiaro e tondo: “Senti, bello, io ho in mano la verità su Ustica. Che vuoi fare, perdi l’inchiesta, la fama oppure mi dai retta?”. Per un’ora e forse più gli spiegai come potevamo fare, come si doveva fare, come era giusto e irrinunciabile fare. Dovevano solo ammettere che io ci ero arrivata, non agli altri, non al pubblico, nel nostro ambiente, quello che proprio gli americani chiamano “il quarto potere”, il giornalismo. Ma noi siamo l’America? Rimasi talmente delusa, sconfortata, offesa e indignata, che presi quei miei “quattro articoli” su Ustica, feci un plico, lo diedi a mio figlio, e gli dissi esattamente: “Tieni stretto queste carte, saranno la mia e la tua salvezza, la dimostrazione della nostra reputazione oltre che credibilità”. Concludo dicendo che dopo la telefonata non ho più parlato con Andrea Purgatori. L’ho incontrato un paio di volte per caso, ma ho capito che mi schivava e faceva finta di conoscermi. La sua morte resta un insegnamento: abbiamo il diritto – e noi giornalisti il dovere – di sapere la verità. La vera verità poi bisogna cercarla, capirla e saperla scrivere. È un metodo. Il mestiere del giornalista.


di Donatella Papi