Gli orsi e il mito della sostenibilità

lunedì 17 aprile 2023


Non è qui il caso di parlare della complessità del mondo naturale facendo riferimento alle numerose teorie scientifiche che rinviano a studiosi come Andrej Nikolaevič Kolmogorov, Edward Norton Lorenz o, soprattutto, Ludwig von Bertalanffy. Il caso dell’orsa JJ4 impone tuttavia una discussione che va al di là del fatto specifico e riguarda un fenomeno culturale che, negli ultimi decenni, sta assumendo una fisionomia preoccupante. Infatti, si ritiene sempre più opportuno regolare, cioè dare regole all’ambiente naturale, e dunque alla sua complessità, per salvaguardarlo da vari processi di cambiamento, spontaneo o indotto, assunti, sempre e comunque, come pericolose degenerazioni. Il tutto sulla scorta di un principio, apparentemente razionale, che propone la conservazione e il ripristino di uno stato naturale “precedente” alle manipolazioni prodotte dalle attività umane, ma mai precisato esattamente: quale stato? Individuabile in quale epoca? Mille anni fa o un secolo fa?

Va osservato che nessuno, decisamente nessuno, possiede le chiavi della complessità nella quale siamo immersi. Di conseguenza, assumere decisioni di interventi di conservazione o di ripristino significa cadere, paradossalmente, nello stesso errore, peraltro involontario, commesso dall’umanità nel condurre attività rivelatesi poi capaci di innescare i processi degenerativi più negativi. Se un impianto industriale ha causato l’indebolimento o la scomparsa locale di una specie vegetale o animale il loro ripristino forzato tramite ripopolamento non risolverà il problema poiché le cause dell’indebolimento permarranno e le specie in questione reagiranno in modo evolutivamente imprevedibile.

In termini generali, un sistema complesso implica la presenza di numerose interazioni fra i suoi componenti per cui la modificazione di uno di loro finisce per propagarsi in varia misura e qualità agli altri. In questo senso, le attività umane hanno senza ombra di dubbio modificato vari elementi facenti parte del sistema naturale. Ciò ha comportato talora effetti negativi per la nostra specie nonostante quelle attività fossero finalizzate proprio a migliorare la nostra sopravvivenza. L’inquinamento dell’aria, delle acque e del mondo vegetale ne è un esempio e a ciò dovremmo sicuramente porre dei limiti. Ma la stessa logica delle interazioni indesiderate vale per gli stessi interventi di ripristino poiché anche intervenire localmente su una specie in via di estinzione significa “mettere le mani” sui processi naturali e indurre propagazioni estremamente complesse dagli esiti imprevedibili. Il termine “estinzione” ha ormai assunto il sapore di un evento triste e magari dannoso ma, in realtà, esso è un fenomeno che potremmo definire di “economia naturale” che consiste in una perenne auto-regolazione tesa a eliminare specie non più adatte favorendo altre più adeguate a un cambiamento in atto. Ripopolare una zona con una specie in via di estinzione vuol dire fornirle un vantaggio evolutivo artificioso che innescherà una cascata di eventi che potrebbe rivelarsi incontrollabile. Orsi, lupi e cinghiali sono lì a dimostrarlo: quale è il loro numero “giusto”, la loro specie “giusta”, la loro collocazione geografica “giusta”? E se le risposte a queste domande si rivelassero errate, chi ne avrà la responsabilità?

Sotto il profilo affettivo e persino estetico può dispiacere che una specie scompaia, ma credo nessuno vorrebbe seriamente ripristinare il bisonte del Caucaso, il rinoceronte di Giava o la pur bella farfalla monarca. L’idea, iper-razionale, di ripristinare o conservare un peraltro imprecisato né precisabile stato naturale è in fondo simile alla disastrosa idea della pianificazione in economia e testimonia l’enorme presunzione umana circa la possibilità di mettere o rimettere ordine alla realtà assegnando a ogni cosa il suo posto giudicato legittimo. Un atteggiamento che trova il suo monumentale approdo nel concetto di “sostenibilità”, come se fosse semplice e noto l’equilibrio, quantitativo e qualitativo, che dovremmo assegnare a ogni azione dell’uomo: quanti orsi, quante vipere è bene vi siano e dove, per esempio, sulla base di una biodiversità valida come quadro generico ma a sua volta imprecisabile nei necessari dettagli. Un atteggiamento, ancora, che implicitamente sembra assumere una certa configurazione naturale del passato, recente o lontano, non come una delle continue e infinite fasi di mutamento bensì come quella migliore, dunque da ripristinare a tutti i costi. Ma quale sarebbe e, eventualmente, come recuperarla? La risposta, ingenua e pericolosa, é: attraverso interventi di varia dimensione e vario costo attuabili secondo direttive stabilite a tavolino dai “saggi” di turno.

Un’analogia può servire a chiarire ulteriormente le cose. Quando il nostro organismo presenta una patologia – cioè la minaccia dell’estinzione di una delle sue funzioni naturali – è ovvio cercare di risolverla “localmente”, intervenendo con i farmaci o con un intervento chirurgico. Per fortuna, i medici conoscono i processi organici molto più di quanto gli ambientalisti conoscano i processi complessivi del sistema naturale, per cui, di norma, quale che sia l’intervento terapeutico, si cerca di evitare in ogni modo l’avvento di “effetti collaterali” generali o persino su organi lontani da quello interessato; in altri termini, si cerca di applicare una strategia “sostenibile” dall’organismo. Purtroppo ciò non è sempre possibile, soprattutto quando la patologia presenta caratteri inusitati e dunque non ancora accuratamente conosciuti. I numerosi e sempre più auspicati “interventi” sulla complessità del mondo naturale sono l’esatto analogo di quanto detto sopra, poiché non conosciamo con sufficiente affidabilità le proprietà dei milioni di specie animali e vegetali che popolano la Terra e, meno ancora, la loro interrelazione dinamica complessiva. In definitiva, evitare di modificare strutturalmente la Terra nei suoi parametri fondamentali è sicuramente ragionevole, ma senza la pretesa di indirizzarla nel dettaglio cercando di imporle modelli arbitrari. Anche perché, alla fine, è lei ad avere, comunque, l’ultima parola.


di Massimo Negrotti