L’italiano? È un must

martedì 11 aprile 2023


L’evoluzione di una lingua fa parte di un processo evolutivo più generale e, come tale, non può essere facilmente arrestata. Tuttavia, anche per la lingua c’è modo e modo di evolvere. Per esempio, andrebbe distinto quello che potremmo definire l’arricchimento di una lingua dalla pedissequa ambizione di attribuire al proprio modo di comunicare un tono culturale aggiornato e in qualche modo ‘superiore’. In questi casi, un tempo si parlava di barriera linguistica per intendere che l’uso di espressioni straniere – o in latino – serve al parlante per stabilire il proprio status culturale, differenziandosi da chi, invece, rimane misero possessore delle sole parole tradizionali della lingua nativa.

Espressioni straniere nella conversazione o negli scritti italiani sono sempre esistiti e, in particolare, derivati dalla lingua francese, percepita come fucina della cultura e della nobiltà. Basti pensare ad espressioni come touché, à la page o honi soit qui mal y pense e così via. Oggi l’inglese ha ampiamente superato sia il francese sia il latino e l’uso di termini anglofoni dilaga senza ritegno in una specie di gara per la quale, soprattutto giornalisti e intellettuali di vario calibro, introducono continuamente nuovi termini per apparire più aggiornati degli altri. Due termini bastino come esempio: endorsement e assist. Personalmente conosco il primo da quando l’avevo sentito, all’età del liceo, ascoltando una canzone di Frank Sinatra e, per curiosità, l’avevo cercato sul dizionario. D’altra parte, non si capisce perché un lettore o un ascoltatore debba essere costretto ad usare un vocabolario per poi scoprire che esistono termini italiani vivi e vegeti e pronti ad essere impiegati. Quanto al secondo, data la sua provenienza chiaramente latina, è di facile comprensione da chiunque ma, ancora una volta, non si capisce perché come il presidente Mario Draghi, col suo fare usualmente... outspoken, aveva osservato in un suo discorso in Parlamento debba essere preferito all’analoga forma italiana. O, meglio, si capisce nel quadro della banale e superficiale pretesa di essere percepiti come possessori di un’ampia cultura non provinciale, al corrente degli eventi di cui si parla nel mondo fra persone di alto livello internazionale fra le quali l’inglese è vitale. Peccato che, poi, si assista al maltrattamento della lingua italiana come capita di sentire da moderatori, o moderatrici, di trasmissioni televisive quando dicono “a me mi pare” oppure “di questo ne parleremo più avanti”.

L’uso di parole o espressioni inglesi, o di altra lingua, costituisce un arricchimento quando esse si riferiscono ad oggetti, processi o eventi che provengono dalla società o dalla cultura americana o inglese. Sarebbe infatti ridicolo creare e adottare ostinatamente traduzioni italiane di termini quali film o mouse, floppy disk o Anti Brake-locking System e mille altri ignorando la loro origine nella cultura anglofona. Qualcosa del genere è stata tentata ai tempi del fascismo quando si pensò bene di ribattezzare persino note canzoni, traducendo per esempio la famosa Saint Louis Blues in Nostalgia di San Luigi; o quando in Francia, agli inizi dell’era informatica, si ‘difese’ la lingua stabilendo che il software si doveva chiamare logiciel  e l’hardware materiel nonostante si trattasse di espressioni nate nella cultura tecnologica americana. Ma non è meno ridicola l’operazione inversa ossia la preferenza che viene data ad espressioni anglofone laddove ve ne siano di italiane dotate della stessa capacità di comunicazione e, non raramente, assai più eleganti.


di Massimo Negrotti