Suicidi nelle Forze dell’ordine: intervista ad Alessandra D’Alessio

martedì 14 febbraio 2023


L’Opinione riprende l’approfondimento sul drammatico tema dei suicidi nelle Forze dell’ordine e in quelle militari. Avevamo intervistato l’avvocato Laura Lieggi e questa volta sentiamo la dottoressa Alessandra D’Alessio, psicoterapeuta ad indirizzo psicoanalitico, psicologa giuridica e del lavoro, consulente tecnico d’ufficio del Tribunale di Roma e responsabile del Dipartimento di Psicologia militare del Nuovo sindacato carabinieri.

Dottoressa D’Alessio, grazie di aver accettato il nostro invito a rilasciare questa intervista. Perché il tema dei suicidi nelle forze dell’ordine ed in quelle militari, in Italia, è ancora difficile da affrontare?

Me lo sono chiesto più volte. Personalmente vengo contattata molto spesso da varie testate giornalistiche ed ho rilasciato numerose interviste per noti programmi televisivi di approfondimento che non sono mai andate in onda. Io sono una psicologa civile a cui si rivolgono militari di tutta Italia ai quali garantisco, come previsto dall’Ordine degli psicologi, etica professionale e riservatezza. Negli anni ho ascoltato centinaia di militari ed appartenenti alle forze dell’ordine e sono tra le poche persone che in ragione di ciò abbiano una visione chiara sulle ragioni di malessere negli ambienti militari.

Lei studia dal “di dentro” il fenomeno avendo a che fare quotidianamente con chi è esposto a questo rischio. Partiamo dall’analisi del fenomeno nelle forze dell’ordine.

Il lavoro svolto dagli appartenenti alle forze dell’ordine è annoverato tra quelli maggiormente predisponenti a sindrome da burnout ed a stress correlato al lavoro e questo per diverse ragioni: impegno a livello fisico ed emotivo, turnazioni di lavoro estenuanti, continua mobilità, esperienze traumatiche. Ma posso affermare, alla luce della mia esperienza, che il fattore più logorante in tal senso è rappresentato dal sistema gerarchico e dalla sua gestione. La discrezionalità con cui viene gestito il potere è la reale scure che si abbatte sul benessere e sul senso di appartenenza alla propria istituzione. Ne sono fermamente convinta.

E nelle forze armate come stanno le cose?

La questione resta la stessa. Basti pensare che anche l’ambito sanitario viene utilizzato per gestire il potere. Un esempio su tutti è rappresentato da una procedura in uso all’Arma dei carabinieri che prevede, in base ad una specifica circolare, che oltre al proprio comandante, anche i colleghi possano segnalare situazioni di disagio psicologico e comportamentale a seguito delle quali un militare potrà essere inserito in un girone dantesco di valutazioni spesso discutibili. E qua risiede tutta la discrezionalità di questa insensata procedura: in primis ci si chiede quali strumenti abbiano i colleghi, ed alle volte anche i comandanti, per valutare lo stato psicologico di un militare. Ma soprattutto, questi invii il più delle volte avvengono solo ed esclusivamente a scopo punitivo perché molto spesso non sono preceduti neppure da una informale conversazione con il proprio comandante, che dovrebbe quantomeno avere a cuore la condizione emotiva di un proprio sottoposto oltre che di verificare l’attendibilità della segnalazione. Le faccio un esempio su tutti, anche se come immaginerà potrei fargliene centinaia. Un carabiniere che seguo è stato inviato in infermeria prima, ed alla relativa Commissione medica ospedaliera poi, che dovrà valutare la sua idoneità psicologica al servizio militare incondizionato con la seguente segnalazione: “Durante il turno notturno effettuato ha manifestato di vivere una condizione di malessere asseritamente riconducibile a questioni relative alla composizione degli equipaggi; nella circostanza si è mostrato taciturno e pensieroso ed ha trascorso circa 40 minuti all’esterno dell’autovettura”. Una circostanza che forse avrebbe potuto prevedere un provvedimento sul piano disciplinare, ma non certamente un invio a visita psichiatrica senza che il proprio comandante gli avesse chiesto neppure “come stai”. Uno dei tanti esempi, questo, di invii in infermeria che definisco “selvaggi” e privi di umanità. Ma veramente la gerarchia militare prevede questi livelli di discrezionalità e di abuso di potere?

Inoltre le conseguenze, soprattutto psicologiche, di un tale comportamento non si riversano solo sul militare in oggetto ma, anche e soprattutto, sulla società che viene privata di forza lavoro e ne paga le conseguenze anche in termini economici perché quel militare posto in aspettativa per malattia, pur non avendo patologia alcuna, rappresenta un costo per lo Stato e per i cittadini.

Le misure attualmente adottate dalle diverse amministrazioni sono sufficienti?

Lei non immagina quanti militari ed appartenenti alle forze dell’ordine pensano al suicidio in momenti come quello che lo ho appena descritto. Alla luce di tutto ciò, lei crede che il benessere dei militari sia davvero una priorità per le loro amministrazioni? Io credo di no, in ogni caso le misure adottate sono totalmente inefficaci poiché nessun militare si rivolgerebbe mai ad uno psicologo “con le stellette”, ad un proprio superiore gerarchico che – nonostante sia assoggettato a specifiche regole deontologiche – è comunque tenuto a redigere una relazione di servizio. Sarebbe una sorta di suicidio assistito.

Che ruolo possono ricoprire i sindacati militari?

I sindacati hanno un ruolo fondamentale nel contenere e gestire questi fenomeni. I militari iscritti ad un sindacato, con le distinzioni del caso, sanno di non essere soli ed hanno un punto di riferimento esterno alla propria amministrazione rappresentato dai propri colleghi e, dunque, in grado di garantire quel sostegno e quell’empatia di cui hanno bisogno.

Ha la possibilità di lanciare un appello e, magari, dare anche dei riferimenti a chi vorrebbe chiedere aiuto.

Rilevo spesso la difficoltà da parte dei militari ad aprirsi ed è sicuramente la conseguenza diretta della loro formazione e dell’abitudine all’obbedienza, ma la chiusura emotiva rappresenta un grave pericolo nelle situazioni di stress. Negli ambienti militari vige lo stigma legato alla professione dello psicologo eppure le assicuro che chi si è rivolto a me in questi anni ne ha sempre tratto assoluto beneficio perché aprirsi con un professionista che non ti giudica, ed al tempo stesso conosce bene il contesto militare, può fare una differenza enorme sia per chi voglia risolvere delle problematiche concrete e sia per chi stia vivendo il girone dantesco delle infermerie e delle Commissioni mediche ospedaliere.


di Alessandro Cucciolla