Il Festival etico

venerdì 10 febbraio 2023


Premetto che non ho mai guardato Sanremo ma mi diverto a leggere i proclami e le polemiche che lo accompagnano. Così scopro dal Corriere della Sera che – povera Italia – la libertà di espressione sarebbe al sicuro sotto l’ala protettrice del presentatore del Festival. Tra i commenti celebrativi sulla stampa, spicca quello che proclama Amadeus “paladino dei diritti se non alfiere del cambiamento, comunque partecipe della trasformazione in atto nella nostra società”. E citando il conduttore Amadeus, anche conosciuto come “Ama” per amici ed estimatori (infelice scelta: a noi romani il nomignolo ricorda un’altra cosa): “Ho sempre un po’ paura del moralismo. Ai bambini va spiegato che esiste una persona diversa da un’altra, un uomo che ama un uomo, una donna che ama una donna: a mio avviso è normale, etc...”.

Dalla scelta di queste parole – “la trasformazione in atto nella nostra società” e “ai bambini va spiegato...” – traspare la consueta, invasiva pretesa che a decidere la direzione dello sviluppo umano non siano i singoli, ciascuno nella propria autonomia di pensiero e opinione, ma un’astratta idea di etica collettiva. Se alla nuova etica devono essere educati i bambini, i genitori non possono sottrarsi al dovere pedagogico di rappresentare ai loro pargoli le varie opzioni della sfera sessuale. All’articolo 30 della Costituzione, che afferma che i figli sono educati all’interno della famiglia, si contrappone, quindi, il ruolo di un’etica collettiva cui competerebbe il ruolo di educare le nuove generazioni. Non diverso dal metodo pedagogico dell’Unione Sovietica che piaceva tanto ai redenti intellettuali di sinistra.

Era quello che aveva tentato di fare – tra le pieghe della lotta alla discriminazione – il, fortunatamente abortito, Dl Zan: portare la didattica dell’orientamento sessuale e dell’identità di genere nelle scuole.
Se il Dl Zan ha incontrato l’opposizione della maggioranza delle forze politiche e dei loro elettorati, evidentemente, la pretesa trasformazione della nostra società non è così radicata come il conduttore vuole farci credere.
Il giornalista, sfidando la comicità, chiude la glorificazione evocando la trasformazione di Amadeus, dopo un altro paio di lezioni di Roberto Benigni, in uno statista.

I rest my case.


di Raffaello Savarese