venerdì 27 gennaio 2023
Se c’è una cosa con cui non mi trovo d’accordo con Liliana Segre è il suo pessimismo verso il futuro della memoria collettiva sull’Olocausto. La senatrice a vita, sopravvissuta al campo di sterminio di Auschwitz – dove fu deportata a 13 anni – è da decenni che testimonia il dramma dello sterminio nazista e, come tutti i sopravvissuti alla pagina più brutta della storia, cerca di tracciare le prospettive di quello che sarà il ruolo del ricordo e della memoria dell’Olocausto negli anni a venire.
Liliana Segre, che ha avuto il dono della vita oltre la morte, e che nonostante abbia su di sé il peso (quasi una vergogna) di essere sopravvissuta all’unica vicenda umana che forse contemplava solo la morte, sembra avere poche speranze sul futuro. Ha detto che “tra qualche anno ci sarà (sull’Olocausto, ndr) una riga sui libri di storia, e poi neanche quella”, quasi a prefigurare una cancellazione post-traumatica di quegli anni, come se il mondo – sommerso in questi decenni da una narrativa reale, mai edulcorata, dello sterminio – fosse pronto a voltare pagina. Come se l’umanità avesse ormai fatto così tanto l’abitudine alle immagini della Shoah da far sembrare superata, superflua, ogni riproposizione televisiva ed istituzionale della memoria.
Lia Levi, che nel 1943 riuscì a salvarsi dalla deportazione (avendo però lo stesso destino della Segre, diventare cenere al vento) afferma invece che “l’Olocausto non sarà dimenticato”. Adesso nessuno deve vedere in queste interpretazioni opposte un processo, uno scambio di requisitorie. Da storico sono convinto che l’unico giudice del tempo sia propria la Storia, che nel suo mutare e nella sua instancabile relazione con i limiti del genere umano sa sempre che tono dare agli eventi, quale peso dare ai drammi, quali speranze dare agli oppressi. Perché Liliana Segre è così pessimista?
A dire il vero non mancano gli elementi per dire che parlare dell’Olocausto a molti appare come una retorica ormai superabile; e non sono nemmeno poche le vicende che vedono protagonista il razzismo e l’antisemitismo (come Anna Frank che indossa magliette di club sportivi, o lo stesso Hitler con la maglia della Roma), ma anche gli atti criminali di vandali che deturpano i monumenti e le targhe commemorative. Se per Liliana Segre tutti questi atti vili sono il sintomo, la percezione certa, che prima o poi non rimarrà nulla sull’Olocausto, c’è da ricordare che non manca mai l’attenzione mediatica al tema delle deportazioni e dello sterminio, che anche al di fuori della settimana sacra delle Memoria ci sono film, documentari e testimonianze. E quando, tra qualche anno, quei bambini e quelle bambine che si sono salvati dall’inferno lasceranno questo mondo, rimarrà – senza dubbio – un vuoto incolmabile: quello dei testimoni. Di loro però rimarrà tutto, dai libri alle parole alle condanne, anche se non saranno più in vita.
Ci sarà sempre un’umanità che ricorda e che porta il peso della morte innocente, anche quando i giovani del futuro non sapranno chi sono stati Sami Modiano o Liliana Segre. Ma basterà dedicare del tempo – sempre troppo poco o troppo avvelenato dalla fretta – a un’intervista a qualche sopravvissuto, alla lettura di qualche pagina, alla visione di un film. Se da una parte la voce viva di un testimone dà quella sacralità, quel misticismo, quella trascendenza al racconto, se è vero che gli abbracci di Sami ai ragazzi o le parole forti di Liliana contro chi le augura sempre la morte sono più forti e più violentemente necessari, nulla mi toglie la speranza nel sapere che ci sarà sempre qualcuno a parlare per loro. Che il “testimone”, come nella corsa, è un oggetto simbolico che si lascia a chi sta dopo di noi e che continuerà per sempre a passare da una mano all’altra. Alla senatrice Liliana Segre auguro di tenere stretto il testimone sino alla fine della sua vita, quando sarà obbligata a dare a qualcun altro il libro della verità, perché senza “testimoni” è proprio la verità ad essere in pericolo.
di Enrico Laurito