La profondità del male dell’antisemitismo

venerdì 27 gennaio 2023


Il giorno della memoria, che ricorda la liberazione del campo di Auschwitz avvenuta il 27 gennaio 1945 ad opera delle truppe russe della 60ª Armata del “1º Fronte ucraino” (da lì passa la tragica storia dell’Europa di ieri e di oggi) guidate dal maresciallo Ivan Konev, ogni anno ci pone davanti l’orrore della deportazione assassina che ha colpito gli ebrei ad opera della Germania nazionalsocialista ed è anche l’occasione per riflettere ancora una volta sull’atrocità del male che l’uomo è stato in grado di operare con consapevolezza, indifferenza e sadismo.

Hannah Arendt, guardando l’apparente insignificanza dell’ex SS-Obersturmbannführer Adolf Eichmann durante il processo che ne decretò la condanna a morte tenutosi a Gerusalemme tra l’11 aprile e il 15 dicembre 1961, rilevava la “banalità del male” di un uomo “comune” e “normale”, incapace di distinguere il bene dal male, senza spontaneità, libertà di pensiero personale capace di crimini efferati senza apparire perverso o sadico, votato ad una cieca obbedienza agli ordini disumani che giungevano dai suoi superiori. La sua tesi ha certamente fondamento nella deresponsabilizzazione dell’individuo determinato dai regimi totalitari, come quello nazionalsocialista, che però non solleva la persona dal dovere di scegliere autonomamente. Troppo facile e troppo assolutorio il “ho obbedito agli ordini”.

Per questo non è priva di ragioni l’opinione della professoressa Donatella Di Cesare che chiarisce in un articolo pubblicato su moked.it (il portale dell’ebraismo italiano) il perché andrebbe revisionata proprio questa molto nota affermazione della giornalista del New Yorker, infatti un tale punto di vista “finisce per privare – scrive la filosofia – il male di una dimensione ontologica profonda rendendolo un fenomeno di superficie o addirittura nullificandolo”. “Il pensiero – così Arendt – cerca di raggiungere la profondità, di andare alle radici, e nel momento in cui cerca il male è frustrato perché non trova nulla”. A ben vedere se si scava nell’animo umano le radici della cattiveria si trovano. Esse affondano nella natura dei figli di Caino e nella ricerca di una presunta “sicurezza”, perseguita con tutti i mezzi anche a danno del proprio fratello o del vicino di casa. Pulsioni che sono tra le più primordiali, intime e perverse dell’animo come ci insegna Sigmund Freud. Gli ebrei poi hanno avuto una storia terribilmente travagliata, fatta di discriminazione, criminalizzazione e tentativi di genocidio, a cominciare dalla diaspora a cui furono costretti nel 66 d.C. da Tito e Vespasiano, dal fatto poi che a loro nel Medioevo era vietato possedere proprietà immobiliari nei regni cristiani e l’unico modo per garantirsi la sopravvivenza era quello di assicurarsi almeno quelli mobili e da lì l’accusa tristemente diffusa di praticare l’usura, tra l’altro autorizzata dalle autorità perché vietata ai cristiani: deprecata a parole dai potenti ma favorita poi nei fatti.

Fu l’Imperatore Federico II che ne tutelò la libertà e la sicurezza come scrive Attilio Milano nella sua Storia degli ebrei in Italia: “Se la vita degli ebrei meridionali ebbe un periodo completamente fausto, esso coincise con l’ultimo venticinquennio del regno di Federico II. In questo quarto di secolo, il sovrano svevo non solo seppe mettere integralmente a profitto le doti commerciali dei suoi ebrei ed in tale senso li tenne in gran conto, ma egli stesso ne studiò e ne diffuse grandemente il patrimonio spirituale e culturale. Pregiandoli quali uomini di tradizione, di pensiero, di azione, riconobbe loro il massimo della dignità cui potevano ambire”.

Peraltro sottraendoli alla giurisdizione dei vescovi e affidandoli alla protezione del prestigioso e potente Ordine teutonico, che si affidava regolarmente alle grandi competenze in ambito finanziario e giuridico che gli ebrei avevano, e ciò permise loro di accrescere indubbiamente la loro ricchezza. Lo stesso atteggiamento ebbero i successori di Federico II, come scrive Shlomo Simonsohn, tra i più importanti studiosi della presenza ebraica in Italia, in Jews in Sicily, “nel 1404 re Martino ordinò ai funzionari locali di evitare ogni richiesta di servizi o pagamenti agli ebrei, dal momento che essi dipendevano solo dalla tesoreria reale” ed il loro prestigio era via via cresciuto tanto che affermano le studiose Angela Scandaliato e Maria Gerardi in La Giudecca di Sciacca esistono “tre documenti del 1435 in cui si nominano i privilegi, che gli ebrei locali erano riusciti infine ad ottenere da re Martino, in base ai quali i prothi dovevano essere eletti ogni anno senza interferenza da parte dei cristiani”. Ma parafrasando Tolkien l’oro attirò Smaug il “drago dell’avidità”. Ed è quello che avvenne nel regno di Sicilia con l’editto di espulsione degli ebrei firmato dai sovrani Isabella e Ferdinando, a Granada il 31 marzo 1492 che ebbe come obiettivo l’acquisizione dei loro beni, allo scopo di risanare le casse della corona dopo la guerra contro i saraceni spagnoli. Stesso destino che toccherà poi all’Ordine teutonico di Sicilia che dovette lasciare l’isola in seguito a false accuse. Fu l’inizio del dramma dell’assolutismo che andava prendendo piede in Europa e dell’antisemitismo che fu presente in ogni epoca. Ed anche Martin Lutero si distinse nella colpevolizzazione dell’ebreo con il trattato antisemita nel 1543 Degli ebrei e delle loro menzogne in sintonia peraltro con l’atteggiamento discriminatorio della Chiesa Cattolica che fu tale almeno fino al Concilio Vaticano II.

I presupposti della nullificazione dell’individuo affondano nell’idea totalitaria che i sovrani, e i governi in quanto “Stato” abbiano il diritto di determinare ogni aspetto della vita, e possono autorizzare qualsiasi crimine anche attraverso l’emanazione di leggi ingiuste, come quelle razziali italiane del 1938, in nome dello “Spirito” assoluto che pretendono di incarnare senza nessun rimorso o dubbio. Tutto ciò però fu teorizzato ben prima del nazionalsocialismo da Georg Wilhelm Friedrich Hegel. Per il teorico dell’idealismo tedesco infatti la libertà e la dignità individuale possono essere sottomessi in nome dello “Stato” e da lì e gioco facile giustificare il resto come è avvenuto per la dogmatizzazione della presunta superiorità della “razza ariana”. D’altronde il razzismo è un’aberrazione dell’intelletto umano, già teorizzato in Francia nell’ottocento con il Saggio sull’ineguaglianza delle razze umane di Joseph Arthur de Gobineau e poi dal britannico Houston Stewart Chamberlain che pubblicò nel 1899 l’opera destinata ad ispirare molte delle idee della futura politica razziale nella Germania nazista, I fondamenti del diciannovesimo secolo (Die Grundlagen des neunzehnten Jahrhunderts) che fece da preludio al Mein Kampf, la sua naturale evoluzione. Per questo solo la memoria e il rifiuto di ogni totalitarismo, nazismo e comunismo per primi, può scongiurare un analogo futuro. Ed è fondamentale pertanto rinnovare un impegno sempre più attivo per la difesa della libertà in nome della dignità umana, che va valorizzata senza distinzione di razza, età, censo, colore, sesso, lingua, religione o cultura perché la vita su questa terra è difficile e un individuo, purtroppo, può diventare da un giorno all’altro homo homini lupus con il più dozzinale dei pretesti e il più insignificante delle sembianze: la profondità del male sta anche e non solo nella sua tragica banalità.


di Antonino Sala