Ridare valore all’individuo “tragico”

venerdì 30 dicembre 2022


Chi si esprime e si è manifestato ha l’opera fuori di sé. Case editrici, gallerie, teatri, sale di concerti, e mezzi di comunicazione con il pubblico. Si tratta anche di decidere la qualità da imprimere alla diffusione dell’opera, diffusione, ben altro che la qualità interna all’opera. La qualità interna per somma parte non proviene dalla volontà piuttosto dalla natura di chi si esprime, costituzionale, difficilmente modificabile. Esiste un livello in ciascuno, non rigido ma con margini determinati, e quanto massimamente vuoi essere te stesso li riguardi e non li falsi, anzi essere te stesso al grado di condensazione identificativa, mi riconosco, scrivo quel che sento, sento quel che scrivo (suono, canto, dipingo, scolpisco). Il “me stesso” diventa altro restando sé stesso. È la creazione. Io sono la mia opera pur non essendo la mia opera. Difficile comprendere perché si ha bisogno di uscire da sé per essere “sé”. Di certo ha qualcosa di materno oltre che paterno.

Taluni a vedere alterata una sillaba si ritengono snaturati, irriconoscibili, non se stessi. Da che proviene questa morbosa necessità di essere se stessi in forma nitidissima, incontaminata, inconfondibile? È questo il segreto visibile dell’espressione, mettere fuori di sé il proprio sé? E perché il bisogno di riconoscersi all’esterno, di riconoscere sé nel sé esternato? Ma certo, palesissimo! Perché siamo quasi ombre destinate al vento notturno senza luce futura. L’Io, sentendo questo schianto, cerca di piantarsi fuori di sé, quando il “sé” proprio verrà falciato, e tenta di farlo in maniera che l’Io conservi all’estremo i caratteri dell’Io n sé, quasi che sopravvivesse soltanto se è vero, il vero se stesso esternato. L’artista è l’uomo più onesto nel suo inganno, perché l’Io non è trasferibile, onesto, perché cerca di uscire “sé” fedelissimamente per salvare nel sé esterno il sé interno.

In epoca indifferenziata, generica, antindividuale amorfico gregaria, l’Io si obbliga ad esprimersi per non soccombere alla genericità del prodotto umano in serie. Fosse facile, alla maniera detta! Vi è una novità dissestante, i mezzi di comunicazione di massa raramente tollerano la qualità, non che sia contraddittoria la qualità con la diffusione, ma può accadere, accade che la diffusione sia considerata qualità. Precisamente: se il messaggio anche estetico viene preso dai mezzi di comunicazione di massa, vale, anzi: ha qualità, ma per avere qualità e uso generale deve essere alla misura della massa o esposto con la grancassa. Un cerchio saldato che non consente la qualità come qualità. Se per farsi luogo nei mezzi di comunicazione di massa devo semplificarmi, mi svaluto per valere tra i moltissimi. Dopo l’epoca nella quale era l’ideologia il tratto valutativo, si è scesi alla diffusione con mezzi vasti, se passi per il media conta e ha pregio quanto dici o altro, ma se diventi comunicatore con i media raramente sei in condizione di esprimere qualità complesse o che sfuggono al luogo comune. Soprattutto ignori se quel che manifesti vale o vale perché lo manifesti a mezzo di un veicolo diffusivo. Caso banale.

Poniamo, il “pensiero” di Pier Paolo Pasolini, niente altro che negazione della omologazione. E Pasolini diventa pensatore, la formuletta è affibbiata. Del resto Pasolini la usava costantemente. Abbiamo il risultato: una paroletta orecchiabile, diffondibile, memorizzabile e Pasolini decifra la società, e ai presunti e reali lettori, uditori monta l’arricchimento dall’intellettuale, il pubblico e l’intellettuale sembrano in possesso la sigillo interpretativo della nostra epoca. Ma il rimedio all’omologazione in Pasolini non era l’individuo era l’ammasso dei bambini africani, indiani, gli ammassi di borgata, il regresso dialettale, quanto di più sottostante alla dignità del singolo civile, umanista, esteta. Erede della civiltà europea! E la ripresa volgarizzata dei miti greci era contro la civiltà. L’enorme difficoltà non si rimedia con la fuga dalla realtà. Essere umanisti e individualizzati in presenza del prodotto in serie, questa la sfida, non l’illusione del mondo precolombiano, irrifondabile. Il composto: intellettuale che forgia formulette, pubblico-ingoia, dissolve ogni complessità e confronto attuabile. L’Europa non può tornare primitiva e borgatara per ritrovare passione vitale, piuttosto rendersi umanistica-rinascimentale, individualizzata in singoli non nella desoggetivazione semi-animalesca.

Arduo supporre il futuro. La comunicazione resa significativa dai mezzi di diffusione che riducono qualità e complessità e forgiano, insisto, formulette, può colpire decimando l’arte, la sola manifestazione che mantiene il se stesso fuori di sé anche in epoca di prodotto in serie. L’arte è soggettiva persino quando rinuncia a esserlo (spero di trovare il testo di quanto Pier Paolo Pasolini disse quando lo invitai in mio seminario all’Università “La Sapienza”; e ci sarà modo di rilevare la problematica della soggettività anche dell’oggettività ossia l’impossibilità specie in arte di essere oggettivi, ne scrisse Giacomo Debenedetti). Tuttavia la grandiosità dei mezzi di comunicazioni danni ne inferisce, gonfiando le rane e riconducendo tutto alla comunicazione! Ormai, come ribadisco, essendo un maleficio, la poesia è comunicazione in versi, un dire strascicato che non si estende per l’intero rigo, la poesia è un “a capo”, un rigo abbreviato, non suono, non cambio di cadenza, non emozioni, confusione tra “tutto è piatto” ed io scrivo in modo piatto. Errore, bisogna esprimere il mondo piatto non esserlo, in tal caso non lo si esprime, è piatto l’autore!

Scoraggiarsi? Vedere i cassetti stipati e dubitare? Per quale società, a chi destinarli? Senza futuro? L’Anno Mille e Mille, e niente oltre? L’opposto! Più l’individuo è oppresso più regga ed alzi la schiena e la mente. Più l’espressione annebbia, più si sii fedele all’espressione. Più la comunicazione vuole ridurti una sigla, cerca gli svolgimenti aggrovigliati ma non confusi, parole di sana pianta originaria, periodi lanciati dove arrivano all’estremo che riesci, non renderti accondiscendente, non aver pubblico se l’aver pubblico ti chiede di negarti. Sii te stesso al residuo molecolare. L’individuo deve esistere, vuole esistere. L’individuo, io, tu, tutto, io, ciascuno, singolo, espressivo, riconoscibile, ma riconoscibile come io non come antenna.

È nell’essere “io” che ci universalizziamo, non in quanto ci universalizziamo per lo strumento che diffonde. Se non sei te stesso, non sei, quantunque propagato. L’enorme rischio della nostra epoca sta nel credere che basti la diffusione per sigillare la valutazione. Bisogna invertire. Tenta la qualità, se poi diffusa mantenendosi qualità, ecco la civiltà, la qualità diffusa che si incarna nella società trasformandola in civiltà. Mai illudersi o ingannarsi che la diffusione sia per sé criterio di qualità. Cerchiamo di essere individui, non come esibizione dell’io che fa strepito per farsi considerare ma perché sono “io” e tengo a quello che io sono.

Due serpenti, entrambi tossici, stanno da un lato e dall’altro accaniti a schizzare, il veleno della cultura per vendere, più vendi più credi e fingi di credere che sia cultura, degenerando nel gran numero e rendendo l’arte, il pensiero una sigla; e credere di rianimare la vita, il sentire nel buon selvaggio o nel bestiale selvaggio purché selvaggio, istintivo. Siamo europei, abbiamo saputo rendere gli istinti arte apollinea non branco di caproni. Al dunque, occorre reimpiantare lo spirito tragico. E che è mai lo spirito tragico? La coscienza dell’Io, la coscienza dell’individuo come individuo. Se comprendi il peso assoluto della tua vita unica, breve, mortalissima, la rendi vitalissima. Nessuno ama la vita quanto chi ne avverte la sparizione, questa è la coscienza tragica. Come si combatte l’era della produzione in serie, della regressione antindividuale del terzomondismo mitologico borgataro? Con l’individuo che sa di essere uno, lui, stampo in un conio, attaccato alla vita come un ragno mille mani perché la vita si stacca da lui: innamorato dell’istante. Una società con “esemplari” tragici indica la forza di vivere e di esprimersi nella totalità individualizzata. Individuo e tragicità convergono in identità. Che esisto a fare se non mi esprimo come io? L’alba dell’Occidente! L’individuo deve risorgere nel suo valore, cosciente senziente che può perdere l’individualità. Valore alla vita nel valore dell’individuo!


di Antonio Saccà