La civiltà? Estetica!

martedì 27 dicembre 2022


Ho motivi molto personali per un breve consuntivo di fine anno, determinatissimo, uno: sono vivo! Non è faccenda generica, del tipo, l’uomo appartiene a una specie mortale. Karl Marx, avendo a che fare con la singolarità unica dell’uomo, come esasperatamente concepiva l’ipocondriaco Max Stirner, uscì l’espressione più indifferenziata da concepire, l’uomo muore perché è di una specie mortale, è mortale la specie, quindi è mortale l’individuo che appartiene alla specie mortale. Se vi fu motivo di stacco dallo stimato Marx fu in tale spunto, che credo di essere stato tra i pochissimi a cogliere. Anni Settanta, Era marxista, l’incapacità della sinistra culturale deriva dalla indifferenza all’individuo come individuo non solo come classe e specie. Non cogliere che classe e specie passano e si fermano nell’individuo unico e mortale. L’esperienza della unicità singolarizzata irrepetibile sparita per sempre è rarissima ma determinantissima.

Cogli il te stesso come un albero le radici e avverti acutamente che quando le radici perdono la terra nutritiva, che per l’uomo è la coscienza di esistere senziente: fine, buio inabissato, notte senza limiti notturni, dissoluzione. Allora, soffochi e brancoli e tenti, cosa? Se vi è uscita, un’ancora, uno spiraglio d’aria, una porta non chiusa. Scrivendo sul mio libro: Ho vissuto la vita, Ho vissuto la morte (Armando Editore), Giuseppe Sanzotta ha espresso così appropriatamente ciò che esprimo a mia volta, che vale opportunamente annotarlo: “Questo libro appare a una visione superficiale e approssimativa, come la storia tutta personale di un uomo: la scoperta di un mondo che gratifica, di donne importanti, di intellettuali stimolanti. Invece può rappresentare le due facce della nostra storia personale: la vita e il successo, poi l’oblio e la morte. Ma non riguarda solo noi. Può riguardare la nostra società che dopo essere stata l’anima della civiltà si inchina, senza combattere, alla morte. Si arrende a nuove culture che ne cancellano l’identità. Saccà, come uomo, ha vissuto la morte, ma nonostante tutto non si è arreso alla morte. Nel libro racconta il suo peregrinare tra gli ospedali. Il Covid lo colpisce duro. Perde conoscenza, la sua vita dipende dalle macchine, dalle capacità dei medici. Quel mondo di intellettuali e artisti (la lista è lunga) conosciuto negli anni passati è lontano. Assente. Ora sono i respiratori a tenerlo in vita. Ha conosciuto la morte nei giorni in cui non è stato cosciente su un letto di ospedale assegnato alle macchine. Ha conosciuto la morte nelle lunghe settimane di malattia, tra ospedali e centri di riabilitazione. La vita è una sconfitta a cielo aperto, ripete dimenticando altri momenti del passato. La morte, o almeno l’idea della morte entra nella vita di ciascuno di noi. L’autore arriva a sognare o immaginare il proprio funerale. Grazie al cielo è solo il delirio di un malato in balia dei medici e vittima di quel covid che pure aveva negato o sottovalutato. Che per reazione lo colpisce così duramente. Tra lo sbocciare della vita e l’incubo della morte c’è l’aristocrazia dello spirito e una civiltà da salvare. In fondo è questa la preoccupazione costante di Antonio Saccà anche nei momenti più delicati della sua vita. La preoccupazione costante è per la tutela di questa civiltà, di questa società”.

Realistico. L’avvertimento sperimentato che se alla morte naturale non vi è scampo, non avvinciamo a essa la morte della civiltà. Mentre stavo in condizioni anche mentali oltre ogni misura di contenimento, insorgeva in me il terrore che insieme al mio corpo fossero seppelliti i miei, futuri, libri. La mezzanotte del mezzogiorno, ottenebramento soffocantissimo, supporre che ho cercato di sopravvivere per far sopravvivere quanto non scritto, non mi sembra convinzione impropria.

Viviamo se abbiamo una causa di vita. Senza retorica enfiata: bisogna salvare qualcosa, e poiché la vita naturale irrevocabilmente è troncata, la civiltà, salviamola, noi europei, sopra tutto o comunque noi europei. Civiltà: l’arte! La vita anche dopo la nostra vita, l’unica vita eterna che emaniamo da noi, natura della nostra natura. Finché esisterà l’arte, al di là della scienza, al di là della filosofia, esisterà l’uomo esistenziale umanizzato. Spostiamo i nostri fini: la civiltà estetica! Ossia? La vita. Espressa.


di Antonio Saccà