Suicidi nelle forze dell’ordine: intervista all’avvocato Laura Lieggi

domenica 11 dicembre 2022


A dire dei suoi colleghi l’assistente capo Umberto Paolillo era un agente corretto e integro, molto timido e schivo cercava di svolgere il suo lavoro compiutamente senza mai immischiarsi in pettegolezzi e maldicenze. L’attività svolta presso le carceri si svolgeva in maniera piuttosto regolare anche se il carattere riservato non lo aiutava affatto e quando avrebbe potuto contestare, Paolillo preferiva non dir nulla per estremo rispetto verso la divisa che indossava.

Durante il servizio prestato nelle caserme del nord d’Italia, senza alcun motivo, per ben due volte veniva mandato presso la Commissione Medica Ospedaliera, dove nessuna patologia veniva riscontrata e dove veniva dichiarato idoneo alla mansione. Per inciso, alla Commissione Medica si è mandati in due casi: o nel momento in cui si dichiara di essere affetti da patologia che possa stabilire una inidoneità al servizio o quando è l’Amministrazione stessa a richiedere un controllo perché sospetta l’inidoneità.

Nel 2004 Umberto Paolillo dal nord d’Italia veniva trasferito in Puglia e le cose precipitano. Paolillo aveva una deformazione della spina dorsale che lo rendeva proteso verso la parte anteriore tanto da far ipotizzare che avesse una piccola gobba. Non era sposato, viveva con i genitori e non amava particolarmente uscire con gli amici e colleghi, preferiva dedicarsi solo al suo lavoro e alla sua famiglia.

Questo stato di cose erano motivo di continuo sfottò e il frutto di una convinzione tanto serrata quanto mai confermata e cioè che Paolillo avesse grossi problemi psichici e che fosse omosessuale.

Ma il vero patema veniva fuori nel 2013 quando, a causa dell’aggravarsi della patologia alla spina dorsale, che gli provocava fortissimi dolori su tutto il corpo, Paolillo era costretto a mettersi più volte in malattia.

Nell’Istituto penitenziario però girava voce che Paolillo si mettesse in malattia in quanto soffriva di problemi psichici. L’amministrazione, contattava Paolillo per comunicargli che, visto il reiterarsi delle richieste di malattia, doveva, per ciascun certificato presentato, specificare la malattia accorsa e non occultarla.

A tale stato di cose, Paolillo si ribellava in quanto riteneva che questo modus operandi ledeva fortemente la sua privacy. In realtà la normativa di riferimento stabiliva che il certificato fosse consegnato ma in busta chiusa.

Tale accanimento era rinvenuto nella convinzione della direzione e degli organi sovra ordinati, che Paolillo avesse qualcosa “che non andasse” e che il suo modo di vivere e di interfacciarsi con gli altri fosse il frutto di una patologia psichica. Non ottenuto dal Paolillo il certificato di malattia psichica, l’amministrazione si rivolgeva al provveditorato chiedendo che Paolillo si sottoponesse a una visita psichiatrica presso la Cmo. Il provveditorato rigettò seccamente la domanda dell’amministrazione e da qui l’accanimento dei suoi superiori.

Succede che in data 14 marzo 2014, mentre Paolillo era in servizio presso la sala colloqui, un suo superiore gli si avvicinava e senza motivo alcuno lo accusava di emettere sgarbati rumori dalla bocca. Paolillo sconvolto per le umilianti accuse che gli venivano mosse, avvilito e sconfortato, cercava, rimuginando a bassa voce, di capire perché i suoi superiori lo credevano pazzo e lo accusavano di strani comportamenti, mai tenuti. Purtroppo, tale ingiusta accusa, lo innervosiva così che iniziava a palesare uno stato di agitazione manifestato con lievi spostamenti dalla postazione assegnata che gli permettevano, comunque, di monitorare la sala colloqui.

A seguito di tale episodio, anche se non confortato da alcuna indagine al riguardo, l’amministrazione reiterava al provveditore la richiesta di inviare Paolillo in visita presso la Commissione Medica Ospedaliera e questa volta il provveditorato accettò e disponeva per lo stesso molteplici esami e consulenze di natura psichiatrica. La Cmo, ad unanimità dichiarava Paolillo idoneo al servizio d’istituto vista l’assenza di elementi psicopatologici in atto a rilevanza clinica.

Questo avrebbe dovuto farlo vivere serenamente, ma in effetti non fu così. Altre situazioni vennero prese a pretesto per annientarlo psicologicamente.

Il 9 gennaio 2015, quasi 10 mesi dopo il fatto che l’aveva portato innanzi alla Cmo, riceveva l’addebito per la trascuratezza nel sorvegliare i detenuti.

Paolillo allora si rivolgeva al Provveditore Regionale per sottoporre l’illegittimità dell’operato dell’amministrazione della Casa Circondariale, il quale decideva giustamente di archiviare la sanzione inflitta ingiustamente.

La persecuzione continuava con l’invio alla Procura della Repubblica l’ipotesi di truffa poiché il dipendente, durante un periodo di malattia fuori dall’orario di permanenza obbligatoria nel domicilio, era visto alla guida della sua autovettura.

Tale accusa era infondata in quanto Paolillo non si trovava nel posto indicato. Non era lui la persona che i colleghi avevano visto nel sagrato della pompa di benzina, ed era veramente affetto da una grave lombosciatalgia. Ma per fortuna il procedimento penale veniva archiviato in quanto la Ctu del Tribunale stabiliva che quel tipo di patologia non impedisce la guida dell’autovettura. Dunque, ancora una volta le ingiuste accuse dell’amministrazione cadevano rovinosamente non senza però lasciare un solco nell’animo del Paolillo che si era dovuto per più di un anno difendere in sede penale per allontanare da sé le ingiuste accuse.

Ma non contenta la direzione del carcere decideva di attivare un procedimento disciplinare per un altro motivo sempre collegato alla stessa giornata. Paolillo veniva accusato di non aver salutato un suo superiore fuori servizio e veniva punito con la sanzione della censura. Anche questa volta la sanzione venne impugnata e il provveditore l’annullava.

Ormai la vita lavorativa era divenuta alquanto insostenibile, viveva nel terrore di commettere degli errori che potessero inevitabilmente scaturire in nuove contestazioni disciplinari e nuovi procedimenti penali da cui doversi difendere.

Ma i fatti incresciosi continuarono. In data 8 gennaio 2015 l’Assistente Capo di Polizia Penitenziaria Umberto Paolillo riceveva ulteriore contestazione su fatti risalenti all’ 8 aprile 2013. Dunque gli stavano rimproverando una ipotetica infrazione commessa quasi due anni prima. Anche questa volta veniva sanzionato con la censura, lui la impugnava al provveditorato il quale decideva di accogliere la richiesta di Paolillo ed ordinava l’immediata archiviazione della sanzione.

Aveva sempre sostenuto di non essere affetto da alcuna patologia psichica ma dopo tutti i procedimenti disciplinari, le sanzioni, i procedimenti penali, le inchieste, gli esami della Commissione Medica Ospedaliera, Paolillo cominciava ad ammalarsi di depressione. Perse progressivamente peso, con la mamma e gli amici parlava delle sole vicende lavorative, e viveva costantemente il terrore di essere accusato di qualcosa che non aveva assolutamente fatto.

In data 7 gennaio 2019 Paolillo riceveva nuovamente contestazione disciplinare e successivamente sanzione che nonostante gli evidenzi vizi del procedimento, per stanchezza psicologica decideva di non impugnare.

Dopo l’ultima contestazione, la vita del Paolillo era rovinosamente compromessa. Il suo assillo era evitare i luoghi di lavoro che gli creavano tanta sofferenza.

Ad un certo punto, stufo di quell’ingiusto trattamento decideva di scrivere al provveditore denunciando di essere vittima di mobbing ed impugnava il giudizio complessivo dell’anno 2014. Anche questa volta il provveditore accoglieva la sua istanza e aumentava il punteggio.

Nel frattempo, la condizione dei genitori andava sempre più peggiorando, ragion per cui decideva di prendere l’aspettativa retribuita riconosciutagli dalla legge 104/92 a causa delle instabili condizioni della madre, la signora Rosanna Pesce. Ma, completate le pratiche per ottenere l’aspettativa, il 17 febbraio 2021, recatosi presso l’istituto penitenziario per depositare la documentazione, qualcuno gli riferiva che non avrebbe mai ottenuto quel congedo straordinario.

A questo punto Paolillo si recava in portineria e chiedeva l’arma di servizio (cosa mai successa da più di vent’anni). La richiesta deve essere apparsa molto strana all’agente di servizio, il quale invece di consegnarla a richiesta, preferiva chiamare il suo superiore, il quale, senza esitare gli ordinava di consegnare l’arma.

Qualche ora dopo, durante la notte tra il 17 e il 18 febbraio 2021 i carabinieri ritrovavano Paolillo senza vita a bordo della sua autovettura. Con un colpo alla tempia dava fine alle sue sofferenze.

Paolillo prima di morire lasciava una lettera nella quale scriveva delle sue vicende lavorative e della sua stanchezza estrema.

Avvocato Lieggi, grazie di aver accettato di rilasciarci questa intervista. Ci spieghi come è nata l’associazione “Diritto è vita", i suoi fondatori e le finalità.

L’associazione è nata da un’idea comune della signora Rosanna Pesce, mamma di Umberto Paolillo, e gli avvocati Antonio Maria La Scala e mia. La signora Rosanna Pesce non ha più ragion di vita se non quella di aiutare tutti coloro che si trovano nella stessa condizione de figlio che oggi non può più salvare. Mamma Rosanna ha saputo convogliare la disperazione e la profonda tristezza per i fatti accorsi, in un’energia positiva produttrice di quell’aiuto e conforto anche nei confronti di coloro i quali potenzialmente si fossero trovati nella stessa situazione di Umberto. Quindi l’associazione ha proprio questa finalità: quella di cercare degli strumenti che siano d’aiuto a coloro i quali si trovano in serie difficoltà in ambito lavorativo a causa di vessazioni e di situazioni che ritengono essere illegittime, attraverso l’attenta osservazione del fenomeno che tristemente è in aumento. L’associazione, difatti si è munita di un numero di telefono al quale lasciare un messaggio whatsapp e chiedere aiuto e assistenza.

Voi agite anche come osservatorio sul dramma dei suicidi nelle forze dell’ordine. I dati parlano di un esponenziale aumento negli ultimi anni. Ci riassume, se possibile suddividendo per corpo di appartenenza, di che numeri parliamo?

Il fenomeno è in forte aumento e tutti gli osservatori che hanno posto in essere la loro attenzione sull’argomento parlano di cifre esponenziali. Infatti se il tasso dei suicidi in Italia e dello 0.60 per mille nella popolazione normale, esso sale all’1 per mille tra gli agenti di polizia e all’1,30 per mille tra gli agenti di Polizia Penitenziaria. Da una classifica formulata dall’Osservatorio Suicidi in Divisa (Osd) aggiornato al 2022 ai primi di agosto, si indica in 57 il numero di queste persone. Lo stesso Osservatorio formula una classifica per ordine di grandezza di questi tragici eventi ponendo al primo posto carabinieri, seguono a distanza Polizia di Stato, Guardie Giurate, Polizia Penitenziaria e con numero molto minori gli altri corpi in divisa (Polizia locale, Guardia di finanza e Marina).

C’è molta ritrosia ad affrontare l’argomento suicidi nelle forze dell’ordine, perché?

Effettivamente si fa molta fatica a parlare di responsabilità della Pubblica amministrazione, fatica che si riscontra anche nelle pronunce giurisprudenziali. Difatti i tribunali sono molto restii nel riconoscere una sorta di responsabilità derivante da vessazioni o mobbing sul posto di lavoro, anche a fronte di un onere probatorio molto complicato. Difatti il militare dovrà non solo dimostrare che effettivamente si sono consumate a suo danno numerose vessazioni, in un arco temporale rilevante, ma dovrà anche dimostrare che ha provveduto ad impugnarle dei termini previsti dalla legge. Decorsi tali termini il militare decade dalla possibilità di rivendicare un comportamento illegittimo e il fatto a sostegno, che ha formato il comportamento illegittimo, non potrà più essere utilizzato per argomentare sulle vessazioni o sul mobbing.

Avete intrapreso un percorso collaborativo con il Nuovo Sindacato Carabinieri, promuovendo eventi on-line e più in generale eventi di sensibilizzazione.

La collaborazione ci è molto gradita in quanto questo sindacato che si sta affacciando da un po’ di anni sullo scenario giuslavoristico, in relazione ai diritti rivendicati dai militari, concentra le sue forze divulgative su questioni di assoluto interesse e che mettono al centro sempre la parte più debole. Con il nuovo sindacato carabinieri abbiamo fatto anche diversi convegni di assoluto interesse. Interesse che è stato mostrato dall’alto numero di visualizzazioni ottenuto. Ci ripromettiamo di continuare nella collaborazione, anche alla luce del fatto che gli argomenti da trattare, nell’ambito del rapporto lavorativo sono davvero tanti.

Non solo suicidi ma anche mobbing. I due fenomeni, alle volte, possono essere collegati?

Certamente sono collegati il suicidio e il mobbing, come anche la semplice vessazione o molestia in ambito lavorativo se protratta per un lasso temporale molto lungo fa scaturire un disagio psichico che può portare al suicidio vista anche la facilità con cui si può reperire un’arma. Difatti la stragrande maggioranza dei suicidi, purtroppo si consuma per mezzo della pistola d’ordinanza. Dunque l’associazione “Diritto è vita” si pone una serie di obiettivi, soprattutto di tipo legislativo (proposte di legge), che mirino a tamponare un fenomeno in incredibile espansione.

Che messaggio si sente di lanciare per quelle donne e uomini in divisa che si sentono abbandonati dalle istituzioni in cui prestano servizio?

Il messaggio è unico e solo. Come da me ripetuto più volte: a tutto c’è una soluzione. Occorre avere una strategia di difesa e respingere, nei termini previsti dalla legge (in quanto se decorrono tali termini nulla potrà essere effettuato) ogni tipo di vessazione. Dunque occorre organizzarsi in maniera puntuale e chiedere aiuto alle persone competenti che conoscono profondamente la materia come sindacalisti, avvocati, consulenti. Elemento fondamentale è che queste persone siano esperte della materia trattata. 

So che state lavorando una proposta di legge, ce ne vuole parlare?

Le idee sono tante, ma quella su cui ora stiamo impiegando tutte le nostre forze, l’avvocato La Scala ed io, è su un progetto di legge che veda modificato l’elemento soggettivo dell’istigazione al suicidio. Molti, come abbiamo già detto, trovano nella morte l’unica soluzione alla cessazione di maltrattamenti e vessazioni. Il reato di istigazione al suicidio ha come elemento psicologico il dolo. Questo vuol dire che solo colui che con coscienza e volontà ti induce alla morte suggerendoti di realizzare l’insano gesto, è responsabile di istigazione al suicidio. Tutti coloro, invece, che non in maniera diretta ma con azioni e/o omissioni, attraverso un fare negligente, imperito, illegittimo, fanno maturare in te l’idea della morte come unica soluzione alle angosce vissute, non agiscono con dolo (coscienza e volontà che si verifichi l’evento) ma con colpa e dunque non sono passibili di commettere il reato di istigazione al suicidio. Quindi la nostra proposta è quella di introdurre una previsione anche di tipo colposo al reato di istigazione al suicidio, solo così coloro i quali molestano, vessano, maltrattano inducendo nell’altro un mal di vivere che si conclude con la tragica scelta di togliersi la vita, potrebbero essere puniti.

Quali altre soluzioni sono possibili per arginare il fenomeno in spaventosa crescita?

Per rispondere alla sua domanda dovrò prima argomentare dicendo che ogni arma e corpo alle sue problematiche. Se, per esempio, si fa riferimento alla polizia penitenziaria punto di partenza dell’analisi è senza dubbio l’enorme difficoltà nella gestione dei detenuti. A seguito delle ultime disposizioni normative per ciascun agente vi sono più di dieci detenuti da monitorare. Il sovraffollamento delle carceri e la scarsità degli agenti complica ulteriormente la questione. La disorganizzazione interna produce stress che si aggrava nella considerazione all’auto rischio a cui sottomettersi. Nell’Arma dei carabinieri, gioco un ruolo determinante l’assoluta assenza di controllo dei controllori che spesso, anche in presenza di gravissime illegittimità, si tende a coprire. Stessa cosa dicasi per l’Esercito e la Guardia di finanza. Penso, comunque, che occorrerebbe modificare il codice dell’ordinamento militare che risulta inadeguata nel disciplinare situazioni nuove e che al momento della sua realizzazione non erano conosciute.


di Alessandro Cucciolla