Carcere e pregiudizio

lunedì 17 ottobre 2022


L’Associazione “Gruppo Idee” nasce nel 2007, all’interno del carcere romano di Rebibbia – Nuovo Complesso, dalla volontà di un gruppo di detenuti di dimostrare alla società che gli sbagli e la privazione della libertà non impediscono la capacità di rinnovarsi. Seguendo questo principio l’associazione opera ogni giorno, con i suoi volontari, all’interno degli Istituti Penitenziari per aiutare chi ha voglia di rimettersi in gioco, cercando di recuperare un suo ruolo all’interno della società civile. E lo fa concretamente attraverso la realizzazione di corsi di formazione, attività di sostegno a detenuti in permesso premio e familiari, attività di reinserimento per detenuti in misura alternativa, attività culturali e sportive, di sostegno alla persona e alle categorie svantaggiate. L’associazione “Gruppo idee” è apolitica, persegue esclusivamente finalità di solidarietà sociale e non ha scopo di lucro.

Massimiliano Baldoni, vicepresidente dell’associazione, si dimostra da subito molto disponibile. Al punto che mi viene spontaneo iniziare la nostra intervista con una domanda estremamente personale: come si è avvicinato al mondo del carcere?

Immagino per amicizia. Quando ero ragazzo frequentavo realtà dal contesto non facile, quindi ho conosciuto diverse persone che poi hanno passato una serie di guai giudiziari. In alcuni casi perché avevano commesso reati, in altri perché erano incappati nelle maglie della cattiva giustizia seppur innocenti: questo mi ha fatto pensare che chiunque poteva finire in un vortice senza uscita, che sarebbe potuto succedere anche a me. E mi ha consentito di avere meno pregiudizi a priori, per questo poi mi sono avvicinato all’associazione.

In qualità di vicepresidente di “Gruppo Idee”, attività che ormai svolge da quasi 14 anni, ha visto un’evoluzione sia all’interno degli istituti penitenziari che all’esterno, nella società, per tutto quel che concerne il famoso reinserimento?

La situazione interna è rimasta sostanzialmente inalterata, con i suoi alti ed i suoi bassi. Sicuramente, da questo punto di vista, Rebibbia rappresenta un esempio positivo di istituto penitenziario: attraverso la sorveglianza dinamica (che consente ad un detenuto di muoversi all’interno del proprio reparto e di svolgere attività lavorative), con l’intento di non tenere il detenuto solamente rinchiuso in cella, grazie a progetti lavorativi e corsi di studio, è un esempio di buon funzionamento. Naturalmente poi ci sono delle situazioni critiche date anche dagli eventi esterni: questi due anni di covid sono stati devastanti perché sono state imposte delle limitazioni molto forti per tutte le attività, al fine di tutelare la salute. Però, generalizzando, la situazione è rimasta stabile nonostante tutte le differenze a livello nazionale delle varie strutture.

Per quel che riguarda la società civile, per me purtroppo, c’è un regresso enorme. Pensiamo banalmente agli interessi mediatici: basta un’intercettazione o un semplice sospetto per invertire il nostro assioma di base del principio di giustizia. Invece di dover dimostrare la propria colpevolezza, a livello mediatico, devi dimostrare la tua innocenza: si ribalta quindi il principio “meglio un colpevole fuori che un innocente in carcere” (principio ribadito anche da molti magistrati). Oggi purtroppo questo concetto è stato ribaltato e c’è un approccio solamente punitivo e colpevolista. Viene a mancare la consapevolezza che i detenuti sono esseri umani che, una volta scontata la pena, dovranno essere capaci di tornare all’interno della società in maniera positiva. Nel migliore dei casi, c’è un totale senso di disinteresse nei confronti del carcere. Salvo poi quando una persona incappa personalmente in problemi legati alla giustizia (banalmente, pensiamo alla questione delle multe non pagate!) e ci si rende conto che la Giustizia Giusta è un’altra cosa. Di questo è colpevole anche la politica, che ha cavalcato tale pregiudizio.

Si ribalta quindi il connubio media-politica, dove la politica non crea più la comunicazione ma rincorre lo share dei media dato dal giustizialismo.

Pensiamo ai casi di cronaca nera. C’è stato una sorta di lasciapassare per quel che riguarda la libera interpretazione e soprattutto la pubblicazione delle intercettazioni in nome del diritto di cronaca. I media naturalmente hanno assecondato il gossip e il voyerismo insito negli esseri umani, falsando così il racconto di un fatto, dandogli un taglio colpevolista a priori. Forse il punto di rottura c’è stato nel periodo di Mani Pulite e Tangentopoli: da quel momento in poi l’approccio garantista è stato colpevolizzato a prescindere dai fatti.

Come associazione, avete avuto modo di girare per vari istituti su tutto il territorio nazionale e di interagire con le varie direzioni (che spesso di sono dimostrate illuminate perché, in questo periodo di giustizialismo spinto, portavano comunque avanti progetti di apertura e reinserimento costituzionalmente previsti). Eppure sembra che ci siano grandi differenze per quanto riguarda i singoli istituti. Quanto influiscono le convinzioni personali della direzione e del personale penitenziario per un buon funzionamento degli istituti penitenziari e che impatto ha la politica, a prescindere dei partiti, nella gestione direzionale di queste stesse strutture?

Diciamo che alla risposta ci si arriva per deduzione! Cominciamo con il dire che tutti gli istituti sono diversi e non in tutti vengono messi in pratica i dettami costituzionali. Basta l’esempio del carcere dell’Asinara che oggi fortunatamente è chiuso: lì venivano messe costantemente in atto violazioni dei più basilari diritti umani. Molti detenuti, oggi, chiedono di essere trasferiti proprio perché ancora ci sono strutture che li tengono chiusi in cella anche per 22 ore al giorno. Anche se sicuramente nelle strutture c’è stato un miglioramento rispetto agli anni ’80, basta guardare i casi di cronaca per rendersi conto che c’è ancora molto da fare. L’approccio della direzione e del personale penitenziario è fondamentale, ma non si puoi mai prescindere dal contesto. Facciamo l’esempio di Regina Coeli che sembra rimasta a 50 anni fa: è una tipologia di istituto penitenziario di passaggio che modifica totalmente l’approccio della sua stessa gestione ma soprattutto cambia la tipologia di popolazione detenuta. Un conto è il detenuto condannato a 20 o 30 anni: quelle persone si approcciano in maniera diversa perché il fattore temporale gli dà un certo tipo di approccio mentale per cui il carcere diventa una sorta di casa. Totalmente diverso è il caso di detenuti con pene brevi, magari di pochi mesi, o pochi anni: quelle persone in carcere si comporteranno anche peggio di quanto fatto fuori perché sanno che di lì a breve usciranno comunque. Questo crea la maggior parte dei problemi sia con gli altri detenuti che con il personale penitenziario. Le direzioni sono sicuramente influenzate dalle opinioni politiche e dalle posizioni governative, anche perché spesso – ma non sempre per fortuna – queste cariche istituzionali sono viste come funzionali ad un avanzamento di carriera. Ovviamente però ogni direzione deve tener conto sia del proprio personale che della composizione della popolazione detenuta. Nel caso di Rebibbia, per esempio, la direzione ha invitato la nostra associazione (come tutte le altre) a riprendere le proprie attività appena si è stabilizzata la situazione del covid: questo proprio perché c’è la consapevolezza che questa chiusura estremizzata ha causato situazioni di malessere che hanno raggiunto limiti estremi. Le direzioni, anche quelle migliori, sono comunque costrette ad un costante gioco di equilibrio tra le esigenze reali dell’istituto che coordinano e le indicazioni politiche governative.

Facciamo un po’ di chiarezza sulle differenti catalogazioni che si danno all’interno del carcere stesso. Vorrei un suo commento sulla notizia di qualche settimana fa che ha creato tanto scalpore, ovvero il passaggio di Cesare Battisti dal regime di alta sicurezza a comune.

Nel caso di Cesare Battisti sono state applicate le tempistiche che la legge prevede. Facciamo un passo indietro: quando si entra in carcere con una pena prestabilita, in certi casi può esserci anche l’elemento dell’ostatività. Ostatività vuol dire che c’è un impedimento nella normale applicazione della pena perché ci si porta dietro una condizione di pericolosità maggiore (vedi i casi di terrorismo e associazione a delinquere di stampo mafioso): questo implica un periodo più lungo di osservazione in alta sorveglianza (e quindi alta sicurezza), che vuol dire stare in isolamento. Il superamento dell’ostatività – tempistica stabilita dalla sentenza di colpevolezza del magistrato – implica che il detenuto può tornare a scontare la propria pena insieme agli altri: in gergo diventa un detenuto comune. Ma sempre all’interno della stessa struttura carceraria e con la stessa pena: l’unica differenza è che può avere contatto con gli altri detenuti. Contatto necessario nel più ampio processo di reinserimento sociale. In tanti Paesi del nord Europa, per esempio, il processo del reinserimento viene inteso ed applicato mettendo subito il detenuto nella condizione di svolgere un’attività lavorativa: questo consente di tenere occupati in maniera propositiva i detenuti, che si abituano da subito ad un cambio di vita quotidiana e che, a lungo termine, dimostrano anche i più bassi tassi di recidiva una volta usciti. Lo scalpore sul caso di Battisti dipende dal discorso di prima, su quanto i media cavalcano un certo tipo di giustizialismo.

Quanto è importante il benessere del personale penitenziario per il buon funzionamento del mondo carcere? Lo chiedo perché spesso ci si dimentica di tutte le persone che lavorano all’interno degli istituti di pena.

È fondamentale. Credo sia uno dei mestieri con il più alto tasso di suicidi. Gli stessi detenuti dicono che un unico agente penitenziario svolge in realtà almeno 3 lavori differenti: lo psicologo, l’educatore e l’agente. Questo a causa della drammatica mancanza di personale. Questo sovraccarico lavorativo non può che portare ad un innalzamento del livello di frustrazione che va ad impattare negativamente non solo sui detenuti, ma anche sui colleghi. Quando non si crea questo tipo di meccanismo, perché si può svolgere la propria mansione senza sovraccarichi dati da mancanze varie, è più semplice che si mantenga il rispetto dei ruoli e quindi un equilibrio generalizzato. Equilibrio che, non scordiamo mai, ha un impatto significativamente positivo sulla società intera.

Lanciamo un appello al nuovo governo: quali sono le priorità da affrontare il prima possibile?

La riforma dell’ordinamento penitenziario è la prima cosa: sono 30 anni che non ci si mette mano. Accanto alla riforma è necessaria una presa di coscienza su quello che la stessa Ue ci chiede (e per cui ci ha già sanzionato) ovvero il sovraffollamento delle carceri. Basterebbe rivedere il meccanismo della custodia cautelare per iniziare: ossia tutte le persone in carcere in attesa di processo. Oppure i detenuti affetti da patologie, quindi con condizioni non compatibili con il carcere e che, invece, sono lì. Andrebbero potenziate le misure alternative per tutti i reati minori. E serve aumentare in generale il livello di vivibilità all’interno del carcere: non scordiamo che quest’anno il tasso di suicidi ha raggiunto un livello altissimo.


di Claudia Diaconale