Natura, arte: vita

venerdì 2 settembre 2022


La natura il capitalismo la usa per trasformarla in merce. In passato si usava come merce, bene, ma l’uomo viveva la natura e nella natura. Per millenni la natura è stata usata ma specialmente sentita, del resto l’uomo viveva nella natura, sia l’agricoltura che la pesca e la navigazione, sempre, ovunque natura, piante e crescita, vento e rigoglio, fiori, fronde, tronchi, stelle, onde, plaghe, colori, odori, dunque sensazioni. L’uomo restava sensibile ossia viveva, perché vivere è sentire, da ciò il primato dell’arte, che dalla natura inesauribilmente attingeva, da ciò il sacro perché a scorgere fonti di trasparente acqua l’uomo immaginava divinità generose, e, se il fulmine si scatenava seghettando, divinità irate, e tutte le metamorfosi immagibili.

Natura e umanità si combinavano, e anche uomini e animali. Questo fu l’uomo antico: non usciva dalla natura e si considerava natura. Certo, il monoteismo qualcosa alterò, il Paradiso terrestre lo perdemmo, la natura diede frutti ma richiese lavoro, ossia non fummo raccoglitori ma coltivatori, però sempre nella natura, e per quando Dio non era come gli dei, l’uomo era troppo avvinto alla natura per non sacralizzarla “paganamente” anche in Era monoteista. Certo che l’uomo faticava, certo, ma stava dentro la natura.

Quando con le macchine riuscì a utilizzare in maniera indiretta vantaggiosissima rispetto al passato la natura, perse e continuò a perdere l’immedesimazione. L’industria sostituiva l’agricoltura, addirittura, il mezzo tecnico e il prodotto industriale distaccarono l’uomo dalla natura. Apocalisse. La prima apocalisse della civiltà. La seconda è attuale. Furono, come sempre, gli artisti, in specie artisti intellettuali, a sentire che l’uomo diventava cittadino fuor di natura, che la macchina toglieva il contatto corporeo con la natura, che la città si industrializzava. Un distacco che diventava perfino estraneità, sicché l’uomo ormai cittadino non aveva legami con la natura, che, fosse pure matrigna, era anche madre.

Di certo fu Giacomo Leopardi a cogliere, soffrire, manifestare questa perdita ed estraneità della natura, natura, ripeto, a doppio viso, matrigna e madre. Nella Germania, Friedrich Hölderlin, in modo “ingenuo”, è disperatissimo: senza natura non vive, non esiste vita, la natura lo attraversa, lo anima, gli fa insorgere emozioni, sensazioni, turbative mentali, dei e natura, fiumi e nembi. Se perde la natura perde la vita, i suoni, i colori, gli dei, il sacro. Hölderlin più greco dei greci, più romano dei romani, è un esaltato della natura più che degli uomini, anzi, esaltato della natura perché misantropico verso gli uomini. Eccede in amore della natura e della vita (si identificano).

Leggerlo, esalta. E vuole l’esaltazione, Hölderlin, per non regredire nel distacco dalla natura, come stingersi all’amata che potrebbe allontanarsi. Privato di natura l’uomo è uno scheletro insensitivo. Figurarsi, oggi. Ben oltre l’Apocalisse della città industrializzata. La nuova Apocalisse è la natura da laboratori, ma anche la natura sotto vetro, un oggetto depurato. In entrambi i casi non stiamo nella natura, che è suono, corteccia, tronco, venticello, rumorio di ruscello, Sesta Sinfonia Pastorale (Ludwig van Beethoven), il viaggio di Il viaggio di Sigfrido sul Reno (Richard Wagner), La moldava (Bedřich Smetana), e quasi tutto Leopardi, e quasi tutto Pascoli, e Tibullo, e Virgilio, e Monet, e i tramonti sullo Stretto di Messina. Tanto per dire.

Ritornare alla natura, ma non ecologicamente, immedesimatamente, sensorialmente, la città dentro la natura non la natura imprigionata dalle città. Ma possibile che con l’immane compito di riumanizzazione ci volgiamo a una natura di laboratorio e a esperimenti di autodistruzione all’ammasso! Diceva Hölderlin: “Chi è dentro la profondità ama la bellezza (non letterale)”. Piante, animali, esseri umani come animali (esseri animati, sensoriali), atmosfera (non ecologia a freddo), sentire l’Universo (non filosofando se l’Universo sente ma sentirlo noi!). Occorre una politica che abbia qualche tratto estetico esistenziale. Certo, si può scadere nel “romanticismo idealistico”, di sicuro le conquiste del realismo utilitaristico sono catastrofiche. Se ritorniamo al sentire la vita gorgheggiando di vita amiamo viverla. Ne vale la pena! Esiste alcunché di preferibile? Natura, arte: vita!


di Antonio Saccà