mercoledì 4 maggio 2022
Sul rapporto tra la violenza perpetrata deliberatamente e il perdono sono state formulate dagli ultimi pontefici tesi significativamente diverse e sul fatto che siano tutte ugualmente compatibili con l’etica cristiana è legittimo avere qualche dubbio. Su questo tema, per esempio, le posizioni di Francesco I sembrano leggermente diverse sia da quelle di Giovanni Paolo II sia dal Catechismo della Chiesa Cattolica. La settimana precedente alla Pasqua appena trascorsa, durante la celebrazione della Messa nel giorno della Domenica delle palme, il Papa ha ricordato che Gesù “non rimprovera i malvagi ma prega per loro: un dono che diventa perdono: Dio fa così anche con noi, quando gli provochiamo dolore con le nostre azioni, Lui soffre e ha un solo desiderio, poterci perdonare”.
Questa tesi è perfettamente coerente con il Vangelo, ma il “poterci perdonare” dipende da una condizione irrinunciabile, che è quella del pentimento, del ravvedimento. Un simile desiderio può infatti incontrare un solo ostacolo: il mancato pentimento umano. In presenza di esso c’è il perdono; in sua assenza il perdono è impossibile. Ma non direttamente per Dio. È impossibile e insensato per l’uomo, nel senso che il perdono di Dio non può avvenire attraverso l’uomo se non c’è il pentimento, perché se il perdono venisse concesso comunque a prescindere dal pentimento, mentre continuano delitti e crimini, chi perdona si farebbe di fatto complice e coautore di quei delitti e crimini. Un conto è infatti il perdono e un conto l’essere pronti al perdono, ovvero la disposizione al perdono, che in un cristiano c’è sempre di fronte a un pentimento sincero; una cosa è il perdono che Dio può concedere a tutti, e una cosa quello che l’uomo può concedere a chi fa il male mentre fa il male.
Il Papa invita tuttavia a perdonare tutti come fa Cristo: “Con Dio si può sempre tornare a vivere, camminiamo verso la Pasqua con il suo perdono perché Cristo interceda presso il Padre per noi. Guardando il mondo violento Gesù non si stanca a ripetere Padre, perdona perché non sanno quello che fanno”. Questo richiamo al messaggio universale del Vangelo, in una circostanza come quella presente, sembra tuttavia fare riferimento a un perdono universale e indiscriminato, esteso anche a chi compie il male mentre compie il male. Su questi temi le accentuazioni, le sottolineature e le loro conseguenze possono essere anche molto diverse. In un famoso sermone tenuto in Sicilia, nella Valle dei Templi, Giovanni Paolo II non esortò tutti a perdonare i mafiosi, ma esortò i mafiosi alla conversione: quando “si rifiuta il Vangelo e il suo messaggio di salvezza – disse allora Papa Wojtyla – s’avvia un processo di logoramento dei valori morali, che facilmente ha contraccolpi negativi sulla stessa vita sociale”. Poi il suo discorso si fece progressivamente più intenso e acceso, per concludersi con un monito alla mafia rimasto memorabile: “Che sia concordia in questa vostra terra! Concordia senza morti, senza assassinati, senza paure, senza minacce, senza vittime! Che sia concordia!”.
Questa concordia, questa pace a cui aspira ogni popolo e ogni persona umana e ogni famiglia! Dopo tanti tempi di sofferenze avete finalmente un diritto a vivere nella pace. E questi che sono colpevoli di disturbare questa pace, questi che portano sulle loro coscienze tante vittime umane, devono capire, devono capire che non si permette uccidere innocenti! Dio ha detto una volta: “Non uccidere”. Non può uomo, qualsiasi, qualsiasi umana agglomerazione, mafia, non può cambiare e calpestare questo diritto santissimo di Dio! Questo popolo, popolo siciliano, talmente attaccato alla vita, un popolo attaccato alla vita, un popolo che ama la vita, che dà la vita, non può vivere sempre sotto la pressione di una civiltà contraria, civiltà della morte. Qui ci vuole la civiltà della vita! Nel nome di questo Cristo Crocifisso e risorto, di questo Cristo che è vita, via, verità e vita. Lo dico ai responsabili: “Convertitevi! Una volta, un giorno, verrà il giudizio di Dio!”.
La parte finale di questo discorso fu pronunciata con voce tonante e con il dito alzato in segno di monito, a conferma dell’impressione che Giovanni Paolo II non prendesse in esame la possibilità di perdonare i criminali in assenza del loro pentimento e della loro conversione. Rispetto alla posizione di Papa Bergoglio, che parla del desiderio di Dio di poter perdonare tutti, persino dei dittatori che non ritengono di doversi pentire proprio di alcun crimine, pare trattarsi di una lettura diversa dello stesso Vangelo. Naturalmente, la pericolosità della situazione in cui ci si è venuti a trovare in seguito alla guerra induce il Papa a cercare di tenere aperta la possibilità di svolgere una mediazione politica sia attraverso il dialogo interreligioso sia parlando direttamente con le parti in conflitto, ma la concezione del perdono quale è a più riprese emersa dai suoi sermoni non può che influenzare i cittadini di tutto il mondo occidentale e non esattamente nella stessa direzione indicata da Papa Wojtyla. Pur partendo infatti dagli stessi propostiti e intenzioni, le conseguenze delle rispettive interpretazioni delle parole del Vangelo possono risultare molto diverse.
Quando Giovanni Paolo II chiamava i criminali con il loro nome invocando la “civiltà della vita” e ammoniva che un giorno sarebbe venuto “il giudizio di Dio”, non esortava al perdono dei criminali mafiosi indipendentemente dal loro ravvedimento, ma era chiaramente in linea sia con le leggi dello Stato – che hanno il compito di difendere i cittadini anche con le armi e la violenza da atti di violenza criminale – sia con il Catechismo della Chiesa cattolica, dove si può leggere che “la legittima difesa, oltre che un diritto, può essere anche un grave dovere, per chi è responsabile della vita di altri. La difesa del bene comune esige che si ponga l’ingiusto aggressore in stato di non nuocere. A questo titolo, i legittimi detentori dell’autorità hanno il diritto di usare anche le armi per respingere gli aggressori della comunità civile affidata alla loro responsabilità” (§2265).
Quanto sostenuto nel Catechismo della Chiesa cattolica è anche coerente con quanto sostengono molti teologi e padri della Chiesa, come per esempio San Tommaso d’Aquino, che così scrive: “Dall’azione della difesa personale possono seguire due effetti, il primo dei quali è la conservazione della propria vita, mentre l’altro è l’uccisione dell’attentatore. Ora, questa azione non può essere considerata illecita per il fatto che con essa si intende conservare la propria vita” (San Tommaso d’Aquino, Summa theologiae, 2–2, q. 64, a. 7). Quello che non si può fare, secondo Tommaso è usare la violenza più del necessario: “E non è necessario per la salvezza dell’anima che uno rinunzi alla legittima difesa per evitare l’uccisione di altri: poiché un uomo è tenuto di più a provvedere alla propria vita che alla vita altrui” (CCC, §2264; San Tommaso d’Aquino, Summa theologiae, 2–2, q. 64, a. 7). La teologia e il buon senso hanno sempre affermato che in extremis, extrema sunt tentanda (nei casi estremi si deve ricorrere a mezzi estremi), e dobbiamo sempre tenere presente che l’estremità del mezzo usato è stata praticamente voluta dall’aggressore, e non dall’aggredito.
Ognuno ha il dovere di difendere se stesso: questo dovere c’è e di esso si deve rendere conto a Dio. Per questo il Catechismo della Chiesa Cattolica dice “che “la legittima difesa può essere non soltanto un diritto, ma un grave dovere, per chi è responsabile della vita di altri, del bene comune della famiglia o della comunità civile” (CCC, 2265). Ora, se non si distinguono con chiarezza le responsabilità degli aggressori e degli aggrediti questo diritto-dovere all’autodifesa rischia di essere confuso con una generica attribuzione di responsabilità equamente suddivise tra tutti i belligeranti. L’esortazione al perdono reciproco e alla pace, giusta tra due litiganti che sono entrambi responsabili delle violenze in corso, risulta fuorviante quando chi ha invaso un paese è messo sullo stesso piano di chi ha subito l’invasione e si invoca un equanime perdono o monito per tutti, sia per i massacratori mentre sono ancora all’opera sia per chi cerca di difendersi dai massacri. A ben vedere, un’analoga equanimità viene evocata da coloro che non vorrebbero inviare armi offensive all’Ucraina: questi sembrano infatti dimenticare che tutte le armi sono offensive quando sono usate per offendere e che nessuna lo è quando viene usata per difendersi. E il diritto di difendersi è proprio di ogni popolo così come di ogni individuo. Ovvero, non c’è alcuna simmetria di diritti o ragioni tra invasori e invasi, tra aggressori e aggrediti: il diritto all’autodifesa è sacrosanto sia per la nostra Costituzione sia per il Catechismo della Chiesa cattolica e i sofismi che vengono contrapposti alle ragioni di entrambi questi testi non possono che risultare degli attentati contro la libertà di ogni cittadino che sia pronto a difenderla.
Naturalmente, in un momento storico così delicato e rischioso è comprensibile e giusto che il Papa faccia tutto il possibile per lasciare aperta la possibilità di esercitare qualche influenza su chi ha provocato questa guerra, ma è nondimeno legittimo chiedersi se lo stia facendo nel modo giusto, se cioè la speranza di poter esercitare qualche influenza su Putin andando a Mosca a parlare con lui possa realisticamente portare alla pace o se non sia invece molto più probabile il rischio che un simile tentativo venga strumentalizzato dalla propaganda dei media russi, finendo così col supportare coloro che, anche da noi, sarebbero favorevoli, in termini più o meno espliciti, a una resa dell’Ucraina pur di veder finire la guerra.
Del resto, anche la posizione del Papa non è esente dal suscitare questo sospetto. In un’intervista rilasciata a Luciano Fontana e pubblicata sul Corriere della sera di ieri 3 maggio, il pontefice ha sostenuto che forse “l’abbaiare della Nato alla porta della Russia ha indotto il capo del Cremlino a reagire male e a scatenare il conflitto”. Ha poi riferito quanto gli ha detto il primo ministro ungherese Viktor Orbán, secondo il quale “i russi hanno un piano, che il 9 maggio finirà tutto. Spero sia così, – ha poi aggiunto il Papa – così si capirebbe anche la celerità dell’escalation di questi giorni. Perché non solo in Donbass, è la Crimea, è Odessa, è togliere all’Ucraina il porto del Mar Nero, è tutto. Io sono pessimista, ma dobbiamo fare ogni gesto possibile perché la guerra si fermi”.
Le sue parole hanno avuto ampia risonanza sui media russi: quelli più vicini al Cremlino, come Moskovsky Komsomolets e Russia Today, hanno messo subito in particolare risalto che secondo il Papa l’invasione dell’Ucraina sarebbe stata provocata “dall’abbaiare della Nato alle porte della Russia”. Zargrad, una televisione vicina alle posizioni della Chiesa ortodossa, ha invece commentato così: “Curioso come il Papa dopo l’inizio dell’Operazione militare speciale abbia subito chiamato Zelensky, mentre non abbia rivolto un pensiero a noi russi. Ogni suo passo è ritagliato sulle sagome dell’Occidente. Bene venga questa sua improvvisa illuminazione, che il Papa sia benvenuto. Ma sappia che non accetteremo mai quella pace indecente che tutto il mondo occidentale sta chiedendo alla Russia”.
Si tratta forse di quella stessa “pace” che il Papa cerca di strappare a Putin recandosi a Mosca? Se fosse la stessa, sarebbe già stata rifiutata; e se fosse invece quella fondata sulla speranza che tutto sarà finito il 9 maggio non potrebbe che rivelarsi “indecente” in ben altro senso rispetto a quello concepito dai media russi. Con le due parate vittoriose a Mosca e a Mariupol, in una città distrutta, piena di cadaveri fatti a pezzi e fosse comuni, potrebbe infatti rivelarsi una “pace decente” per Mosca, ma sarebbe assolutamente indecente per quella che Giovanni Paolo II ebbe a definire “la civiltà della vita”. In una simile ipotesi Putin potrebbe collegare un Donbass indipendente o russo alla Crimea, e forse annettere anche Odessa e tutta la parte sud dell’Ucraina, e l’operazione speciale potrebbe essere dichiarata così ufficialmente finita; ma anche qualora un simile scenario dovesse essere accettato dall’Ucraina, cosa almeno per ora inverosimile, lo sarebbe per poco tempo e a un prezzo altissimo: il sacrificio di migliaia di persone morte per la libertà del loro paese, anche civili e bambini, sarebbe infatti reso vano, Zelensky passerebbe alla storia come colui che ha inutilmente portato al massacro il suo popolo e Putin potrebbe celebrare il suo trionfo in Russia come il grande Zar che ha denazificato l’Ucraina proprio nell’anniversario della vittoria sul nazismo.
Se dovesse realizzarsi la speranza del Papa che la guerra finisca proprio con le cerimonie previste per il 9 maggio, speranza che sembra condivisa da Orbán, non si capisce inoltre per quale motivo Putin non dovrebbe, visto l’indubbio successo ottenuto, alzare la posta. La guerra nucleare, lungi dall’essere scongiurata, rimarrebbe comunque all’orizzonte, lo Zar vedrebbe rafforzato il suo potere mentre l’Europa e l’Occidente risulterebbero decisamente più deboli e probabilmente divisi. Non si tratterebbe affatto del tipo di pace che un Papa può auspicare, ma solo di “una pace indecente” in un senso ben diverso, e anzi opposto, a quello di cui parlano i russi: si tratterebbe cioè di una resa mascherata, e più esattamente della vittoria di un dittatore criminale che sarebbe fin dal giorno successivo ancora più pericoloso per i destini dell’umanità e per “la civiltà della vita”.
di Gustavo Micheletti