mercoledì 9 marzo 2022
Ha preso avvio in Commissione Giustizia al Senato l’iter che mira a disporre che il cognome del figlio venga attribuito secondo la volontà dei genitori, essendo stati proposti cinque differenti disegni di legge (AA.SS. 170, 286, 1025, 2102, 2276 e 2293 Disposizioni in materia di cognome dei figli), con l’intento di dare pari dignità alle donne nel rapporto di coppia. È opportuno chiedersi se la misura che si intende adottare sia parametrata all’esigenza della tutela del diritto di uguaglianza, o non costituisca piuttosto una soluzione sproporzionata rispetto a un problema che riguarda davvero un numero esiguo di soggetti: un problema risolvibile attribuendo tale possibilità ai genitori che non trovino sul punto un accordo, senza modificare l’intera normativa.
L’attribuzione del cognome nel sistema giuridico italiano vigente. Il nome, composto dal prenome e dal cognome, costituisce il principale mezzo di identificazione della persona; è uno degli elementi essenziali dell’identità personale dell’individuo, che riceve tutela costituzionale ai sensi dell’articolo 2 della Costituzione. Il diritto al nome trova anche tutela nell’articolo 22 della Carta fondamentale, ove si statuisce che nessuno per motivi politici può esserne privato. La certezza e la stabilità del nome informano l’identità della persona e sono protetti dall’ordinamento, a salvaguardia del singolo, oltre che del pubblico interesse alla all’agevole individuazione delle persone (Consiglio di Stato, 15 ottobre 2013, n. 5021).
In Italia l’ordinamento prevede che il prenome sia scelto da entrambi i genitori, per effetto della pari attribuzione in termini di responsabilità genitoriale, poiché investe un diritto fondamentale della persona. Al figlio nato nel matrimonio viene automaticamente attribuito il cognome del padre, salvo diverso accordo tra i genitori che possono scegliere di attribuire quello di entrambi, in base alla sentenza n 286 del 2016 della Corte Costituzionale: essa ha dichiarato l’illegittimità della norma che prevede l’automatica attribuzione del cognome paterno al figlio nato da unione coniugale, in presenza di una diversa volontà dei genitori. Al figlio nato nel matrimonio non può essere attribuito il cognome della madre. Diversa la regolamentazione per il figlio nato fuori dal matrimonio, al quale viene attribuito il cognome del genitore che lo riconosce per primo o, in caso di contemporaneo riconoscimento da parte di entrambi, il cognome del padre.
La Corte Costituzionale, con ordinanza n. 18 datata 11 febbraio 2021, ha sollevato, disponendone la trattazione innanzi a sé, la questione di legittimità costituzionale dell’articolo 262 comma 1 del Codice civile nella parte in cui, in mancanza di diverso accordo dei genitori, impone l’acquisizione alla nascita del cognome paterno, anziché dei cognomi di entrambi i genitori, in riferimento agli articoli 2, 3 e 117 comma 1 della Costituzione, quest’ultimo in relazione agli articoli 8 e 14 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con la legge 4 agosto 1955 n. 84.
La Corte europea dei diritti dell’uomo, con sentenza del 7 gennaio 2014 n. 77 (Cusan e Fazzo contro Italia) ha ritenuto che costituisca violazione dell’articolo 14 Cedu, in relazione all’articolo 8, l’impossibilità, sussistente nella legislazione italiana, di derogare all’automatica attribuzione al figlio nato da matrimonio del cognome del padre, e di attribuire il cognome della madre solo nell’accordo dei coniugi. Si tratta, secondo la Corte, di una discriminazione fondata solo sulla diversità di sesso, derivante da una lacuna del sistema giuridico italiano, secondo il quale il “figlio legittimo” è iscritto nei registri dello stato civile con il cognome del padre, senza possibilità di deroga, nemmeno in caso di consenso tra i coniugi.
L’esame in corso avanti alla Commissione giustizia del Senato. La Commissione Giustizia del Senato ha avviato l’iter che mira a disporre che il cognome del figlio venga attribuito secondo la volontà dei genitori, riunendo cinque diversi disegni di legge in un testo unificato. L’obiettivo sarebbe quello di dare pari dignità alle donne nel rapporto di coppia, eliminando la prevalenza del cognome paterno, in assenza di accordo tra i genitori stessi. Le proposte in discussione, molto simili tra loro, prevedono che i genitori debbano operare una scelta al momento della nascita del figlio, optando per il cognome del padre, o per quello della madre, o per quello di entrambi. Nel caso in cui i coniugi non raggiungessero un accordo, al figlio sarebbero attribuiti d’ufficio i cognomi in ordine alfabetico. I figli nati dagli stessi genitori avranno il medesimo cognome deciso per il primo, onde evitare che i fratelli possano avere un cognome diverso. Per i figli nati fuori dal matrimonio, in caso di riconoscimento successivo da parte del secondo genitore, il cognome di quest’ultimo si potrà aggiungere a quello del primo.
Perplessità. Il contenuto dei disegni di legge, confluiti nel testo unificato, appare davvero sproporzionato rispetto alla finalità proposte. Perché scardinare un sistema di riconoscimento dell’identità personale che sussiste da decenni, obbligando i genitori a ricorrere a scelte identitarie, anche quando non vi sia tra loro alcun disaccordo? Perché non mantenere l’attribuzione del cognome paterno, aggiungendo solo che i genitori possano esprimere una diversa volontà, attribuendo ai figli il cognome della madre o quello di entrambi? Quale potrà essere la regola nel caso di figli già nati, dopo l’eventuale approvazione della norma? Subiranno un cambiamento di cognome e così un cambiamento di identità? Oppure per mantenere l’identità di cognome tra fratelli, non sarà possibile applicare la norma a nuovi nati, all’interno del matrimonio? Ancora, chi avrà il cognome di entrambi i genitori, potrà trasmetterne al figlio solo uno, a propria scelta. Quindi i figli di fratelli avranno cognomi diversi? E i nipoti avranno cognomi diversi dai nonni? Il nome costituisce garanzia di certezza dei rapporti giuridici; l’approvazione delle norme in discussione creerebbe una situazione di oggettiva indeterminatezza, certamente deleteria.
(*) Tratto dal Centro studi Rosario Livatino
di Margherita Prandi (*)