Riflessioni “in grate” sulla nomina del nuovo capo del Dap

domenica 6 marzo 2022


Premesso che con l’insediamento a capo del Dap del magistrato Carlo Renoldi, propiziato dalla ministra Marta Cartabia, non cambieranno significativamente le carceri, ma che, al massimo, si assisterà ad un mero galleggiamento di un relitto, accompagnato dal liturgico rituale del richiamo alle norme e ai principi costituzionali e sovranazionali che dovrebbero ispirare l’azione amministrativa dell’intera amministrazione penitenziaria, non posso, però, non provare un profondo disagio per quella che sembra essere la reazione di taluni ambienti politici e perfino di quota parte del sindacalismo della polizia penitenziaria, contrari verso tale innocuo passaggio di testimone. Davvero mi chiedo come possa considerarsi “inaccettabile” tale designazione a motivo della di lui diversa sensibilità verso le politiche securitarie e di giustizia che imperano malamente e da troppo tempo, nel nostro sistema “agito” penitenziario.

Si ripropone, ancora una volta, il tradizionale blocco tra giustizialisti, in servizio permanente effettivo, e sindacalisti, che si rifanno a modelli securitari, degni di un Ancien Régime tutto sempre da attestare con le ragioni della forza, con quanti, più ragionevoli e dubbiosi, non mostrano però la forza di sostenere posizioni diverse, temendo riflessi di diversa natura, compresi quelli che poi li additerebbero quali traditori di uno Stato forte e muscolare, perché colpevoli di essere più vicini ai diritti delle persone detenute, piuttosto che alla spada di Minerva. Il paradosso, poi, è che i più arrabbiati e contrari verso un possibile modello umanistico e umanitario del carcere (che non significa affatto “liberi tutti”), sono spesso quei rappresentanti dei lavoratori che ben si guardano di lavorare all’interno delle carceri, eppure capaci di pontificare.

In verità, sarebbero tante altre le cose che pure andrebbero non solo dette, ma perfettamente verificate e pubblicizzate, perché costituirebbero ulteriore motivo di riflessione non solo per l’opinione pubblica, ma anche per una classe politica che si muove a colpi di contorcimento di viscere e inseguendo un populismo della vendetta di Stato. Ma parlando genericamente di sindacati della polizia penitenziaria, ci si è mai chiesti perché tra il personale vi siano tantissimi che abbiano più di una tessera sindacale? Due, tre se non di più? Libertà di associazione oppure, talvolta, si è costretti psicologicamente a tale tassazione indiretta? Se il medesimo dipendente si iscrive a più sigle per essere tutelato, corrispondendo mensilmente e implacabilmente le relative quote di adesione, che non poche volte andranno ad organizzazioni politicamente contrapposte, è evidente che ci troviamo di fronte ad un problema rilevante e sommerso, e le cose sommerse, già solo per questo, possono essere “pericolose” e destabilizzanti, soprattutto in un contesto così delicato come sono le carceri.

Ma tornando alla questione del cambio del vertice del Dap, la vera svolta poteva esserci se a capo di una tale complessa e articolata organizzazione amministrativa avessero collocato un vero manager della cosa pubblica (pure proveniente dal mondo delle imprese “private”), che fosse tenuto ad agire e governare nell’alveo delle leggi e con una espressa attenzione verso i risultati concreti, visibili, misurabili, semmai annualmente avvalorati da un soggetto verificatore terzo, al punto di attestarli come marchio di qualità perfino sulla carta intestata della stessa amministrazione. Un manager che capisse di grandi appalti di beni e servizi; che sapesse e fosse pratico di contrattazione sindacale nei diversi comparti amministrativi che riguardano il Dap, governati da una cluster di contratti collettivi nazionali di lavoro differenziati; che conoscesse tutta la complessità di tematiche assunzionali e del rapporto di lavoro libero-professionale che pure allignano nell’amministrazione delle carceri, riferiti in particolare al personale esperto non di ruolo (psicologi), pratico in questioni di cambio di aziende erogatrici di servizi, ove si pone sempre la problematica della continuità del rapporto di lavoro delle maestranze, al fine di evitare che vi siano dei licenziamenti o dei vuoti temporali nell’erogazione delle retribuzioni, solo per citare alcune delle tematiche ricorrenti di maggior rilievo.

Per non parlare di tutte le questioni ed i contenziosi contrattuali che pure occorre anzitutto prevenire e poi, quando non se ne può, governare e che spesso hanno durata ben maggiore della stessa permanenza dei capi del Dap, in specie se riferiti a grandi appalti riguardanti la realizzazione di nuove strutture penitenziarie che, allorquando finalmente, vedranno la luce, dopo gli innumerevoli contenziosi, fallimenti, transazioni, risulteranno già di fatto obsolete; per non parlare della materia riferita all’acquisto di armi, mezzi, tecnologie. Insomma, l’organizzazione penitenziaria e i suoi servizi, che costituiscono l’hard del sistema, mentre le norme ne costituiscono il software, sono amministrazione della cosa pubblica allo stato puro, non sono né sentenze né requisitorie, ma agere e non ius dicere. Purtroppo, però rimane, almeno in Italia, il fatto che il sistema penitenziario continui ad essere inteso come un continuum della funzione giurisdizionale, per molti un terzo tempo del processo ancora da giocare, dopo che si sono esauriti quelli delle indagini di polizia e dei procedimenti penali.

Insomma, si insiste nel non volere comprendere che il carcere deve essere qualcosa di assolutamente diverso rispetto alla funzione giudiziaria, perché i fini non sono quelli di giustizia in senso teleologico (che si esaurendosi con la sentenza di condanna, contemplerebbe tutto, sia in termini di pena detentiva applicata che in tema di risarcimenti e pene accessorie), ma quelli imposti dall’articolo 27 comma 3° della Costituzione, che, attraverso la condanna, esige la rieducazione del condannato. Quello che ad un capo del Dap deve soprattutto interessare non è nemmeno, a ben guardare, se l’obiettivo della rieducazione sia stato effettivamente conseguito, posto che già v’è una folla di organi pubblici e giudiziari che devono, per obblighi del loro ufficio, verificarlo (direttore del carcere, i funzionari giuridico pedagogici, gli psicologi, i criminologi, il magistrato di sorveglianza, il tribunale di sorveglianza e, talvolta, le altre autorità giudiziarie nell’ambito dei procedimenti che governano), ma che, volendo alleggerire il tema, la location carceraria e il capitale umano che in essa operi, sia per davvero all’altezza del prezzo altissimo che i cittadini e, in particolare, il detenuto pagano, poggiando quest’ultimo sul piatto della bilancia il corrispettivo della sua libertà personale: prezzo, tra l’altro, che non l’ha visto negoziare (al di là di quello che può essere lo sbiadito richiamo al patteggiamento della pena).

A tal proposito fa sorridere che alcuni, sempre grazie all’imbroglio delle parole, arrivino ad appellare il detenuto come “utente”, quasi come se per davvero questo poi avesse la possibilità di cambiare, come nel mercato della telefonia, il provider del servizio ove non fosse corrispondente al singolare contratto stipulato con l’emissione della condanna. Gli obiettivi del capo del Dap, in verità, dovrebbero essere altri: che le carceri siano anzitutto dei luoghi sani, salubri, ben organizzati, efficienti, con amministrazioni trasparenti, con personale motivato e professionalmente preparato, oggetto di una costante formazione professionale, ben attrezzato, gratificato economicamente e convinto delle finalità che l’amministrazione dovrebbe perseguire, un personale, insomma, capace di spiegare perfettamente le ragioni di ogni propria condotta che deve essere assolutamente improntata, vistone lo status di pubblici dipendenti, ad imparzialità e perseguendo il fine della buona ed economica amministrazione della cosa pubblica (Costituzione, articoli 3 e 97).

Compito del capo del Dap è che ponga ogni controllo di merito affinché il personale che dipenda da lui non favorisca, per incapacità o per corruzione, l’evasione dei detenuti o attività illecite degli stessi, che non consenta la violenza gratuita e ingiustificata sulle persone detenute, che controlli la filiera delle azioni amministrative all’interno delle carceri, affinché non vi siano o di riducano i suicidi, sia quelli che riguardino le persone detenute che quelli degli agenti o di altro personale; che non vi sia lo sfruttamento del lavoro dei detenuti e del personale, che nessuno, insomma, lucri sulla detenzione. Poco importa, al capo del Dap, in verità, se “l’utente” sia un mafioso o un quisque de populo, italiano o extracomunitario; in ogni caso, per essi, la qualità del servizio sanitario (il quale già da diversi anni è competenza esclusiva, ripeto esclusiva, del ministero della salute e delle regioni, fino ad arrivare alle locali aziende sanitarie e ospedaliere) deve essere adeguata, quantomeno perché, a differenza dei cittadini liberi, “i ristretti” non possono andare a cercare fuori, pure ove lo volessero, i medici, di fiducia, pur non essendo negato ad essi di servirsene, ove ne abbiano i mezzi e, ovviamente, a loro spese.

Il capo del Dap dovrebbe, attraverso la sua organizzazione, vigilare che tutti i grandi contratti siano perfettamente onorati e corrispondano ai bisogni dell’amministrazione e dei destinatari dei relativi servizi; ciò significa che i pasti erogati nelle centinaia di mense aziendali devono essere di buona qualità, idem per quelli somministrati ai detenuti, e non perché siamo buoni e generosi (seppure la bontà non è un peccato) ma perché, parola magica, li “paghiamo”; essi dovrebbero corrispondere alla stessa qualità che vorremmo per i pasti destinati ai malati negli ospedali, ai soldati nelle caserme, ai bambini nelle scuole pubbliche. Il capo del Dap, attraverso le sue strutture, dovrebbe verificare che gli ambienti dove soggiornano le persone detenute siano a norma, che le celle siano areate e dotate di adeguata luce naturale e artificiale, che dispongano di cesso, bidet, doccia e lavabo, come si vorrebbe anche nella più modesta locanda, idem le stanze assegnate agli agenti nei loro alloggi.

Preoccuparsi che i detenuti abbiano una branda e un materasso decenti, che consenta agli stessi di riposare per quel che possono e in relazione anche alle loro patologie o invalidità (altrimenti ci costeranno di più in termini di cure e contenziosi), che possano perfino avere un tavolo, una sedia (e non uno sgabello senza schienale) e degli armadi, che possano sfogliare libri e giornali, vedere la televisione, pur senza dare fastidio ad altri ospiti della struttura e al personale sorvegliante, poter telefonare quando lo desiderino e a loro spese, senza che le loro conversazioni siano ascoltate da altre persone, se non quando sappiano che devono esserlo e siano perfino registrate; che possano sgranchire le gambe all’interno di cortili, senza rischiare di urtare altri detenuti o ricevere pallonate sul viso, che possano frequentare corsi di formazione professionale, studiare ove lo vogliano, incontrare i propri familiari nelle giornate previste, senza che quest’ultimi debbano fare migliaia di chilometri per raggiungerli, così come anche d’inginocchiarsi per una preghiera in luoghi deputati, pure al fine di chiedere perdono; agli stessi deve essere consentito di curare il tempo libero in modo utile piuttosto che ordire la commissione di altri reati con i loro compagni irriducibili e, infine e “fatto rivoluzionario”, curare anche la propria intimità, piuttosto che vederla violata psicologicamente e, nei casi più terribili, fisicamente da altri, e qui mi fermo…

Poco importa, perciò, che siano mafiosi, poco mafiosi o per nulla mafiosi, che siano terroristi, agnostici o fondamentalisti, oppure dissidenti, disobbedienti o inconcludenti; poco interessa che siano truffatori, violentatori, rapinatori, ladri o violatori seriali del codice della strada, amministratori pubblici disonesti o spacciatori, perché quelle pur presenti differenze riferite ai reati commessi sono state, in uno stato di diritto, già considerate nella misura e tipologia di condanna irrogata. Si aggiunga poi che ben le carceri dovrebbero avere già caratteristiche securitarie differenziate, perché altrimenti sarebbe da scemi ingolfarle tutte, allo stesso modo e indifferenziatamente, di ladri di polli, venditori di hashish al minuto e detenuti sottoposti al 41 bis. Non a caso, spesso, la polizia penitenziaria lamenta l’assenza o il malfunzionamento di sofisticati mezzi di controllo (taser, sistemi antiscavalcamento, antitrusione, antiagressione, campane metal detector, scanner e allarmi, garitte armate, vetri super corazzati, macchine blindate, telecamere a circuito chiuso, sorveglianza tecnologica semmai con droni, capaci di rilevare il calore umano e che impieghino l’infrarosso, oppure dotati di sistemi di controllo biometrici, se non anche “armati”); però si converrà che sarebbe uno spreco, un grandissimo spreco, impiegare tutto ciò per categorie modeste di detenuti, in quanto così facendo si toglierebbero risorse proprio verso il controllo dei più pericolosi, anche perché se alla fine si afferma di voler controllare tutti, in verità avrei il sospetto che non si controlli proprio nessuno.

E il controllo non è solo quello di guardiania, ma in particolare della personalità e del profilo psicologico e criminale del reo; però, per questo, occorrerebbero tanti operatori specialisti che, guarda un po’, continuano a mancare, talché, evocando un vecchio adagio popolare, si potrebbe dire “tanta dinamite e poca miccia…”. E poi, concludendo, cosa importa ai sindacati della polizia penitenziaria , tanto per fare un esempio che non mancherà, avendo conosciuto bene l’ambiente, di suscitare strumentali polemiche, che il nuovo capo del Dap abbia le sue idee, che forse anch’io e tanti altri (che pure forse potrebbero avere una qualche piccola competenza) hanno sul fatto che si sia sviluppato, negli anni, un network di professionisti dell’antimafia e che con tale “brand”, sollevando toghe o tuniche (pari erano nell’antica e sacra inquisizione) hanno costruito storie professionali e delle vere imprese economiche, semmai pure sbilanciando le regole del “libero” mercato.

Quello che, invece, dovrebbe interessare a tanti e, soprattutto ai sindacati è che la funzione sociale della pena sia perfettamente coerente con i principi costituzionali e che quanti non siano capaci di operare, con dedizione e onestà, vengano immediatamente allontanati e posti in condizione di non nuocere, perché, e dovrebbe essere chiaro a tutti, basta una mela marcia per guastare l’intero contenuto del cesto o comunque metterlo in grandissimo pericolo. Cogitationis poenam nemo patitur: Se vogliamo fare i processi, ci bastano già le cose concrete delittuose che si fanno o le omissioni che si compiono. Ciò detto, spero che la ministra Cartabia riesca a portare avanti questa piccola, ma davvero piccola, trasformazione, consentendo ad un magistrato che non abbia l’imprinting, ormai ultradecennale, delle procure, di dirigere il Dap; sicuramente un cambio di sensibilità potrà consentire al sistema penitenziario di riguardarsi allo specchio, ma da qui a pensare che sia per davvero migliorato ce ne passa! 

(*) Penitenziarista

Former dirigente generale dell’Amministrazione penitenziaria

Presidente onorario del Cesp (Centro europeo di studi penitenziari) di Roma

Componente dell’Osservatorio regionale antimafia del Friuli Venezia-Giulia


di Enrico Sbriglia (*)