Pandemia e infodemia, intervista a Marco Ferrazzoli

lunedì 28 febbraio 2022


Uno dei molti aspetti rilevanti del conflitto in Ucraina riguarda l’informazione e la comunicazione. I mass media sono stati improvvisamente e comprensibilmente invasi da notizie prima sulla crisi diplomatica internazionale e poi sull’invasione da parte dell’esercito russo. Dopo due anni di monopolio informativo sul Covid, quindi, ora si volta pagina. Ne parliamo con il giornalista Marco Ferrazzoli, capo ufficio stampa del Consiglio nazionale delle ricerche, che proprio all’infodemia ha dedicato il suo ultimo libro, “Pandemia e infodemia. Come il virus viaggia con l’informazione”, scritto assieme a Giovanni Maga, che al Cnr dirige l’Istituto di Genetica molecolare.

Che somiglianze ci sono tra l’infodemia sul Covid e quella sulla guerra?

Ce ne sono diverse. La principale è che, nel caso sia di una pandemia sia di una crisi internazionale, le informazioni giungono improvvisamente ai cittadini, senza una preventiva preparazione negli ambiti di politica estera e di ricerca scientifica. Pertanto, queste notizie rischiano di generare più confusione che consapevolezza. Facciamo solo un esempio relativo all’Ucraina: adesso si leggono e ascoltano continuamente commenti sul Swift, una parola che fino a pochissimi giorni fa non avevamo mai sentito neppure nominare.

Le differenze invece quali sono?

Direi soprattutto il fatto che in una situazione di guerra le fonti, cioè le parti in conflitto, debbano condurre una politica di propaganda e di censura, quindi enfatizzare o nascondere le informazioni che potrebbero avvantaggiare e nuocere sul piano militare, logistico, tattico e strategico. La comprensione di quanto sta avvenendo è così persino più difficile rispetto alla pandemia, dove il problema era dato paradossalmente dalla eccessiva quantità di informazioni disponibili, che rendeva complicato inserirle in un quadro coerente e comprensibile.

Anche nel caso della pandemia, però, ci sono state accuse e sospetti di censura.

In effetti sì, soprattutto per quanto riguarda l’origine, l’inizio della diffusione virale avvenuta in Cina. Pechino non è stata trasparente e non ha consentito alla commissione dell’Oms di condurre la propria inchiesta in totale libertà: questa reticenza del regime ha naturalmente avallato i sospetti di carattere complottista. E comunque in diverse nazioni, Italia inclusa, è emerso il sospetto che le autorità non rendessero immediatamente e completamente disponibili le informazioni, per esempio per non creare un panico incontrollabile. Detto ciò, io sostengo però con forza la tesi dell’origine naturale del Covid-19, cioè quella per zoonosi o salto di specie, che è stata nuovamente confermata da una ricerca di questi giorni. Né tantomeno credo alle voci secondo cui la pandemia sarebbe frutto di chissà quali macchinazioni multinazionali. Se solo guardassimo con più attenzione alla storia sanitaria del Novecento, ci accorgeremmo che gli episodi di contagio sono frequenti e soltanto alcune contingenze fortunate ci avevano finora esentato.

Mentre la sorpresa per una guerra sul territorio europeo è più giustificata.

Si tratta di un fatto quasi inimmaginabile. L’impressione per un baby boomer come me è che l’orologio sia stato improvvisamente riportato indietro di 50 anni e più. Siamo passati da una pandemia a una guerra relativamente vicina a casa nostra. Dinamiche delle quali eravamo stati testimoni molto indiretti, attraverso il racconto delle generazioni precedenti, ora diventano drammaticamente reali.

Come difendersi dalle infodemie?

A parte l’alfabetizzazione alla quale facevo riferimento, e che è ormai una necessità per acquisire una cittadinanza consapevole, dobbiamo comprendere che è necessario scegliere un pacchetto informativo autorevole dalle fonti più qualificate.

Non dovrebbero essere i giornalisti a selezionare?

Certo, questo è senz’altro vero, anche se ormai viviamo nell’epoca della disintermediazione. Ma quanto questa selezione non sia stata operata accuratamente dai media lo dimostra proprio la pandemia, dove abbiamo dato massima visibilità a esperti sicuramente autorevoli ma che hanno finito per diventare una sorta di compagnia di giro, secondo il principio che il sociologo Robert King Merton chiamava “effetto San Matteo”. Mentre sono stati esclusi moltissimi altri scienziati italiani autorevoli perché, probabilmente, i giornalisti non avevano nemmeno chiaro come si riconosca davvero un esperto qualificato in un certo settore.

Cos’è la cittadinanza consapevole?

Facciamo solo un esempio. La guerra in Ucraina è un dramma, ci sono vittime, devastazioni, profughi, ed è a loro che dobbiamo pensare prima di tutto. Ma il riflesso di questa catastrofe per noi europei è enorme e colpisce il settore energetico che era già fortemente in crisi, anche per la contingenza determinata dalla transizione ecologica. Sappiamo bene quanto le bollette e il carburante abbiano prodotto una bolla inflattiva e speculativa di cui pagano le conseguenze famiglie, imprese e trasporti. Assistiamo a un generale rincaro dei prezzi che non è nemmeno effetto di uno sviluppo accelerato ma soltanto del rimbalzo dopo la depressione degli scorsi anni. Un rincaro che rischia di minare la strategia del Recovery Plan e del Pnrr. Non parliamo poi della pandemia, causa di uno stravolgimento totale della nostra vita. Noi dobbiamo capire meglio quello che succede, viviamo in società della comunicazione e dell’informazione dove notizie corrette, complete e comprensibili sono un bene primario.

Un’altra similitudine tra pandemia e Ucraina è che anche nella prima si usavano toni bellici…

La tendenza all’esasperazione lessicale è generale, dilagante, incontenibile. Pensiamo all’uso della terminologia bellica – trincea, eroi – a livello mediatico e istituzionale durante la pandemia: è uno degli aspetti che affrontiamo nel libro. Anche adesso mi pare che l’esaltazione non manchi: se da parte russa si nominano i Paesi baltici, la Svezia e la Finlandia, paventando un allargamento del fronte di crisi che sarebbe devastante, da parte americana si risponde citando esplicitamente la “Terza guerra mondiale”.

Tra le due crisi c’è differenza nell’uso dei numeri e delle immagini?

Nel libro abbiamo seguito molto le polemiche sull’uso dei numeri nella pandemia, dalla diffusione del bollettino quotidiano ai morti per Covid o con Covid. Sono polemiche senza risoluzione, poiché ci sono esigenze diverse. Per esempio, in un reparto ospedaliero è necessario conoscere anche i malati con Covid mentre a livello regionale chiaramente sarebbe meglio distinguere. E anche adesso sull’Ucraina le cifre si susseguono: dai 13 soldati ucraini morti nell’Isola dei Serpenti ai 60mila profughi entrati in Russia dal Donbass, dai 198 morti nei primi giorni di conflitto ai 3.500 soldati russi uccisi secondo il ministero della Difesa di Kiev. Quest’uso risponde a quella che Paolo Giordano, fisico e romanziere, chiama la “falsa sicurezza dei numeri”, cioè la convinzione che con una cifra si controlli e si comprenda la realtà. Ma anche l’uso delle immagini è fondamentale, si dice che “a picture is worth a thousand words”. Ricordiamo le bare portate via dagli autocarri militari a Bergamo, nominate ancora di recente, e pensiamo anche alle immagini che stiamo vedendo dall’Ucraina: il carro armato che investe deliberatamente un’auto civile o il soldato che si fa un selfie mentre dietro di lui partono i razzi. L’uso combinato di cellulare con videocamera e rete internet determina una diffusione delle immagini in quantità e celerità che mai avremmo immaginato, per usare un gioco di parole.

(*) Tratto da Il Nodo di Gordio

(**) Marco Ferrazzoli-Giovanni Maga, “Pandemia e infodemia. Come il virus viaggia con l’informazione”, Zanichelli, 232 pagine, 14,30 euro


di Daniele Lazzeri (*)