Teste di moro e altre teste

giovedì 24 febbraio 2022


Non sopporto chi è ripetitivo, chi replica sempre lo stesso discorso e quindi non sopporto adesso neanche me che sono ancora una volta costretto a ripetermi nel criticare l’eccesso di tendenza politicamente corretta dilagante ormai da tempo nell’arte. “Gutta cavat lapidem”, dicevano i nostri avi latini e certo è vero, ma lo è altrettanto che tutto ciò sia diventato ormai un incubo continuo, marcato da un pensiero unico e massificante che riduce ogni cosa alla propria stupidità più banale. Ecco quindi che ci risiamo, e un corretto modo di definire un colore ma non solo, ovvero il “testa di moro” è stato depennato dall’eloquio umano.

Aspettiamo a breve che qualcuno voglia espungere dalla bandiera sarda i quattro mori”, oppure mortificare la tragedia di William Shakespeare, Otello, chiamandolo magari “il nero di Venezia” oppure in ricordo attualizzato, Ludovico Sforza potrebbe venir detto “l’abbronzato parecchio”. Insomma, la parola “moro” proprio non la vogliono sentire né leggere, tanto che per adeguarsi ai tristi tempi che stiamo vivendo i Musées Royaux di Bruxelles hanno avuto la geniale pensata di cambiare il titolo della celebre opera di Pieter Paul Rubens – da sempre universalmente nota come Quattro studi della testa di un moro – in un più inclusivo (ma perché?) Quattro studi della testa... di chi o di cosa sinceramente a me verrebbe subito da chiederlo e un’idea ce l’avrei.

Così il secentesco olio su tela, che poi è uno studio preparatorio per qualche altro dipinto ulteriore, non turberà più i sonni dei curatori museali, i quali certo ben sanno che il titolo originale dell’opera era l’oggi esecrando Têtes de nègres, ovvero “Teste di negri” e pertanto forse anche per farsi perdonare i lunghi anni di colonialismo belga in Africa, dal 10 febbraio ultimo scorso sino al prossimo 30 luglio, l’opera sarà al centro di una mostra appositamente voluta per spiegare le ragioni della modifica del titolo. Come se cambiando un nome si potesse cambiare la storia. Ah “ipocrita lettore” scriveva tra i fumi del vino e quelli dell’assenzio Charles Baudelaire, mentre accarezzava di certo le tornite cosce ramate della sua amante creola. Creola si potrà ancora dire? Sarà inclusivo o razzista?

Temo che appena se ne accorgeranno, possano pensare di cambiare il soprannome al pittore rinascimentale Alessandro Bonvicino, detto appunto “Il Moretto” oppure non si potrà più chiamare “Il Moro” un tipo di sigaro toscano per non incorrere nel rischio d’esser due volte colpevoli, di razzismo e del fumare… e persino l’eccelsa enciclopedia Treccani, alla voce “moro” non potrà più definirlo come derivante “dal latino Maurus ovvero abitante della Mauritania”, per tacere dei “due mori” in bronzo che da secoli a Venezia battono le ore con i loro lunghi magli sulla campana della Torre dell’Orologio, in piazza San Marco. Infine, si correggeranno gli scritti di Ludovico Ariosto e persino di quel beghino di Alessandro Manzoni. Sia mai chiamare “morello” un cavallo dal pelame scuro o, peggio in quanto offensivo e discriminatorio, utilizzare il nome di “razza mora romagnola” per una tipica specie di suini. E le more di rovo? Si potrà ancora fare la marmellata di more o si dovrà ricorrere anche in questo caso a nuovi sinonimi più inclusivi?

Insomma, prevedo un lessico futuro sempre più scadente verso le tonalità di grigio, non più cinquanta, ma un grigiore uniforme e piatto, monotono e monocromo come le menti che lo applicano a ogni cosa per renderla più simile a loro.


di Dalmazio Frau