Giornata della Memoria. Perché dimenticare non è impossibile

giovedì 27 gennaio 2022


La Giornata della Memoria, che potrebbe sembrare una ricorrenza istituita da alcuni decenni, esiste solamente dal 2005, e in questi quasi vent’anni in cui si è celebrata il 27 gennaio una frase ha sempre accompagnato le celebrazioni: “Non bisogna dimenticare”. Perché la memoria, nella sua bifronte accezione cognitiva e culturale, è un concetto che si presta a dissimulare i pensieri, a declassare le inquietudini, a far sembrare qualcosa diverso da quello che è. E quindi, soprattutto i deportati e le deportate che hanno fatto ritorno alla vita – dopo averla persa nei campi – si impegnano nel proporre il concetto del “non dimenticare”, del “non deve più accadere” o, per dirla con Primo Levi, “è successo, dunque può succedere di nuovo”. Per chi vive la propria vita con una forte dignità, chi pensa all’uguaglianza tra individui, chi non si smarrisce nelle recondite e apparentemente eccitanti teorie della superiorità razziale, non può che far diventare modello della propria vita il “non dimenticare”. Non dimenticare i treni che partivano, le case che si svuotavano, le urla che a suon di colpi d’arma da fuoco svanivano nei corridoi vuoti, dove qualche fortunato riusciva a rintanarsi. Non dimenticare che la cenere ha un peso, che dentro gli infiniti musei della memoria e nei campi di concentramento trasformati in percorsi didattici c’è ancora l’anima di milioni di persone, donne, bambini, disabili, diversi, ultimi.

Anime che il deviato sistema concentrazionario ha scomposto in frammenti da bruciare, ha tentato di nascondere servendosi della obbligata solidarietà di altri ultimi. C’è tanto ancora da dire, ma possiamo fermarci qui. Trascorrere qualche giorno tra Germania, Austria e Polonia, magari in inverno, dove il silenzio della neve e il vuoto della nebbia animano i campi dei pensieri più atroci, potrebbe bastare, a noi uomini e donne della felice modernità del progresso, a farci capire quello che succedeva lì dentro. A qualcuno potrebbe bastare leggero un libro, magari di Sami Modiano. O sentire un’intervista a Piero Terracina. Quasi in un impeto di prepotente empatia, potrei dire che tutti, a modo nostro, possiamo affacciarci in un giorno qualunque di settant’anni fa e capire quello che succedeva: ma non serve. A noi bastano le testimonianze. Niente può ricreare il dramma delle deportazioni, dei campi, dei forni, dei camini che seppelliscono nell’aria le vite, ma tanto può aiutarci a riflettere. A questo punto è necessario fare la domande che da almeno dieci righe sto rimandando: è possibile dimenticare? È possibile che quegli anni, vissuti da uomini e donne ma scritti da demoni in Terra, siano passati nella storia, l’abbiano cambiata, ma che adesso siano troppo lontani e sfocati da essere mantenuti in vita?

Possibile che le parole di Liliana Segre, come quelle di tanti deportati, siano vicine all’essere dimenticate? Potrebbe sembrare di si. Sono decine, centinaia, ogni anni, gli attacchi antisemiti e razzisti. Parole e comportamenti che fanno tornare indietro, e al tempo stesso ci fanno capire che forse, dal 1943, non siamo andati avanti più di tanto. Sentire al telegiornale di ragazzi e ragazze aggrediti perché ebrei, o perché ultimi, è intollerabile. Se ne vanno in giro per le città, ancora nel nostro millennio illuminato dalla civiltà, dove le storie opache del secolo scorso sono solo brutti ricordi, formazioni grottesche e solo apparentemente edulcorate di SS convinti di poter e dover fare pulizia etnica, ristabilendo un ordine razziale definito da qualche falso profeta. Ognuno deve dare una risposta al quesito “si può dimenticare?” o “stiamo dimenticando?”. Intanto, si dovrebbe sperare che in tutte le scuole, dall’asilo all’università, non si ritenga mai troppa la didattica della memoria. Che si vedano film, documentari, interviste; che si sentano racconti e si leggano testimonianze e speranza. Che si viaggi, capendo che Auschwitz non è un parco tematico dell’orrore, ma uno spazio che tanti ambiscono a riproporre.


di Enrico Laurito